Cronache

"I miei monti come dopo la Guerra"

Lo scrittore veneto: "Il paradiso verticale dei boschi ridotto a cimitero"

"I miei monti come dopo la Guerra"

Risponde da Padova, dove è nato nel 1972, Matteo Righetto, e alla cui Università insegna Ecologia Letteraria. Ma è appena tornato dalle sue montagne. Dalla sua casa di Colle Santa Lucia, in quelle Dolomiti cui ha dedicato L'anima della frontiera e L'ultima patria i primi due romanzi della Trilogia della Patria (Mondadori): protagonisti i De Boer, che alla fine del Novecento, nel Veneto dell'emigrazione e della coltivazione del tabacco, sono l'ultima famiglia rimasta a Nevada, tra Asiago e la Val Brenta. E ora Righetto, che su un territorio di passato sacrificio ha scritto pagine epiche, riflette sul bilancio di una tragedia climatica senza precedenti.

Che immagini le sono rimaste negli occhi?

«Nel Novecento ci sono state due guerre mondiali: adesso non siamo in guerra, ma quel che è accaduto nell'Alto Agordino gli somiglia. Tetti scoperchiati, fienili volati via, camosci salvati solo perché stanno più in alto, ma cervi, caprioli, piccola fauna come gli scoiattoli sterminati, come in una strage. Un'ecatombe che comprenderemo appieno solo dopo l'inverno. Ma l'immagine che davvero mi ha sconvolto è la foresta: il simbolo supremo forza, verticalità, elevazione verso il cielo ridotto a una distesa immane di alberi atterrati. Una realtà non umana trasformata in un enorme cimitero: alberi che sembrano cadaveri stesi a terra e riversi uno sopra l'altro. Uno scenario sepolcrale».

Ci sono luoghi simbolo particolarmente colpiti?

«Una è la Val Visdende, al confine con l'Austria. Un'altra in Alto Adige, addirittura: il lago di Carezza, dove c'è la foresta del Latemar, uno dei polmoni verdi più importanti d'Europa. E poi la zona intorno a Colle Santa Lucia, dove io ho casa: è rimasta quattro giorni isolata, senza soccorsi, senza corrente elettrica, senza telefoni, senza acqua, dimenticata dalla collettività e dalle istituzioni. Ripiombata in poche ore indietro di due secoli».

Che cosa abbiamo perso?

«Da un punto di vista naturalistico migliaia di ettari di foreste, patrimonio mondiale dell'Unesco, abbiamo perso in biodiversità e in equilibrio ecologico. La notizia peggiore tuttavia è che non abbiamo perso solo un passato, ma un futuro: anche se tra cento anni le foreste devastate dal cataclisma che si è abbattuto sulle Dolomiti saranno ripristinate, infatti, il cambiamento climatico nel frattempo avrà mutato flora e fauna al punto che il territorio non sarà mai più quello che era fino a tre giorni fa. Una parte di noi stessi e della nostra cultura sono scomparsi per sempre».

Che cosa avremmo potuto o possiamo fare?

«Nella legge di bilancio non c'è nessuna voce legata all'ambiente e alla mitigazione dei cambiamenti climatici. Questo fenomeno apocalittico - perché è corretto per le Dolomiti bellunesi e l'Alto Agordino dire che si è si è verificata un'apocalisse - non può essere derubricato come un capriccio del maltempo: ci vuole una visione sistemica, bisogna cambiare l'approccio politico e culturale. E poi il ritardo dei soccorsi è inaccettabile nel 2018, nel cuore dell'Occidente».

Ma la popolazione non si è persa d'animo.

«È entrato in campo il sentimento di forza e determinazione di persone che vivono in montagna: non si lamentano, ma riscoprono la solidarietà e la mettono al servizio degli altri in un modo che mi commuove anche mentre ne parlo.

Il giorno dopo la tromba d'aria, anche le donne erano sopra i tetti».

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