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I "monuments men" dell'Unesco parleranno italiano

Trenta carabinieri e trenta specialisti civili saranno i "Caschi Blu" della cultura mondiale

I "monuments men" dell'Unesco parleranno italiano

Siamo seri: chi se non noi? A chi, se non al Paese che vanta il più grande patrimonio storico-artistico-culturale del mondo affidare il compito di allestire un manipolo di Monuments men dotati di scienza, coscienza (e un simpatico mitra, all'occorrenza) per impedire che le solite, ottuse teste di legno facciano quel che i talebani fecero distruggendo i Buddha di Bamyan o gli inturbantati dell'Isis le vestigia di Palmyra, in Siria?Trenta carabinieri: i «Caschi Blu della cultura».

Trenta specialisti sotto egida Unesco, affiancati da altri trenta civili (archeologi, storici dell'arte, linguisti, restauratori dell'Istituto Centrale del Restauro di Firenze). Cinquantatré Paesi, lo scorso ottobre, votarono per acclamazione la proposta partita dal premier italiano, Matteo Renzi, e dal ministro Enrico Franceschini. Perché «a Nation stays alive when its Culture stays alive» (una nazione è viva quando è viva la sua cultura) come recita lo slogan dei Caschi Blu della Cultura che nel loro stemma, per così dire, avranno proprio questa iscrizione: «Unite For Heritage».Ora si entra nel vivo. L'accordo fra la grande potenza culturale chiamata Italia e l'Unesco per la nascita del nuovo centro di formazione internazionale sarà firmato domani, a Roma, dal sindaco di Torino Piero Fassino. Perché è a Torino, nel campus di corso Unità d'Italia, che la task force si allenerà, curva sulle carte dei siti più a rischio del pianeta. Obiettivo la salvaguardia del patrimonio artistico e culturale dell'umanità. Non andremo a fare la guerra, questo no. Non ci schiereremo a difesa di Palmira (in 30, poi). Interverremo, su precisa chiamata dell'Onu, in casi di catastrofi naturali (terremoti, inondazioni) o per mappare i danni conseguenti a un conflitto, quando la polvere degli scontri si sarà posata. O faremo opera di prevenzione, come già si progetta di fare in Libia per tenere lontane le zanne dei contrabbandieri dell'Isis (che rubano i reperti per venderli a certe facce toste in Svizzera che gestiscono il business) dai centri archeologici della costa. Un compito complesso per il quale i Carabinieri e il personale civile si stanno preparando, forti dell'esperienza che noi italiani ci siamo fatti sul campo.

La stessa esperienza che una trentina d'anni fa noi italiani già dispiegavamo a Tell Barri, governatorato di Al-Asakah, dove il «becco d'anatra» siriano, a Nord-Est, s'incunea nel Kurdistan iracheno. Un «tell», una collinetta dalla cui sommità si intuiva il profilo di Mosul, l'antica Ninive. Ci andammo (a Damasco regnava Hafez Al Assad, la «volpe del deserto», padre di Bashar, l'attuale presidente) per incontrare l'archeologo Paolo Emilio Pecorella, che all'inizio degli anni Ottanta vagava tra le vestigia del palazzo di Tukulti-Ninurta II, sovrano neo assiro (890-884 a.C.) e i fantasmi di Babilonesi, Persiani, Seleucidi che si erano succeduti in Mesopotamia.Trent'anni dopo, sugli stessi luoghi, al confine del Califfato, si muove ancor oggi un «commando» di archeologi italiani animati dallo spirito di una missione impossibile: salvare il patrimonio artistico iracheno dalla furia belluina dei jihadisti dello Stato islamico. Due dozzine di Monuments men, anch'essi, guidati da Daniele Morandi, professore di Archeologia del Vicino Oriente all'università di Udine e direttore del progetto «Terre di Ninive». Gente che ha deciso di correre qualche rischio operando talvolta a soli 10 km dal «territorio Comanche». Perché? Ma perché ne vale la pena, scrivemmo quasi un anno fa. Perché «una nazione resta viva quando è viva la sua memoria», come recita ora lo slogan dei Caschi Blu della Cultura.

E perché dove sventolano oggi le bandiere nere del califfo Al Baghdadi, così come in Libia, non c'è in ballo solo la storia, la cultura di una regione, ma un pezzo fondamentale della Storia di tutto il genere umano.

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