Cronache

I nostri negozi chiudono, gli stranieri aprono

I nuovi commercianti sono perlopiù cinesi, indiani e pakistani: pochi pagano le tasse e poi spariscono

I nostri negozi chiudono, gli stranieri aprono

Roma - Noi chiudiamo baracca, loro la aprono. E generalmente non pagano le tasse. Nel quadro dell'attuale desertificazione delle attività commmerciali in Italia (saldo negativo di 3mila imprese nel 2016) sguazza come non mai l'imprenditore straniero. Di solito è cinese o indiano-pakistano, è restio a qualsiasi tipo di contributo e per questo motivo è poco propenso a stabilizzarsi. Massimo due anni e leva il disturbo.

Le cifre di Confesercenti parlano chiaro: Nel 2016 hanno aperto 7 mila aziende gestite da non italiani. Ora sono 160 mila, il 19 per cento del totale. Manca poco alla colonizzazione. Tra i settori a più alta densità forestiera: moda, tessile, frutterie, elettronica. Di farmacie, ottici e profumerie frega poco. Per ora. Perché già nell'ambito del commercio ambulante gli imprenditori non italiani sono la maggioranza: ad agosto 2016 le attività guidate da stranieri erano 103mila, il 53,1% del totale e il 4,9% in più rispetto allo scorso anno.

Abbiamo detto del tessile. Pensate che in questo settore nove imprese su 100 sono a gestione straniera. Nulla a che vedere però con il fenomeno delle frutterie finto minimarket. Ce le abbiamo ormai ovunque, sotto casa, dietro l'angolo: più 11,8 per cento nell'ultimo anno. Se non è boom questo. Ma cresce anche il numero di rivenditori nei settori informatico (+11,2%), ferramenta (+6,4%), macellerie (+6,8%).

E dove c'è bottega c'è lavoro. Gli addetti delle imprese non italiane crescono a un ritmo sette volte superiore (+8,7%) a quello della media del settore (+1,7%). Dinamismo che nasconde qualche criticità. «Le imprese guidate da titolari non italiani, infatti - spiega Mauro Bussoni, segretario generale di Confesercenti - hanno un ciclo di vita molto più breve della media del settore. Oltre un terzo delle attività chiude entro due anni dall'apertura perché investono poco, come dimostra la concentrazione in attività marginali, esempio frutterie, in cui l'avvio d'impresa ha un costo nettamente inferiore a quelli del negozio tradizionale».

Non solo. «L'imprenditoria straniera nel commercio presenta gravi segnali di irregolarità», denuncia ancora Bussoni. E infatti dall'analisi delle banche (dati forniti dall'Inps) emerge che quasi 100mila imprese di commercio su aree pubbliche, di cui più di 70mila (l'83 per cento) a titolarità straniera, non ha mai versato un contributo negli ultimi due anni.

E sarebbe il caso di intervenire.

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