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I numeri smontano Di Maio: sui contratti decreto inutile

I numeri smontano Di Maio: sui contratti decreto inutile

Nei primi cinque mesi del 2018 il numero dei contratti a termine che sono stati trasformati in contratti a tempo indeterminato è aumentato del 45% rispetto ai primi cinque mesi del 2017, passando, su base annua - (cioè nella ipotesi che questa crescita percentuale duri tutto l'anno) - da circa 95mila a circa 150mila. Questo aumento dimostra che il contratto a termine, da poco introdotto in Italia, man mano che viene applicato, tende a generare più contratti a tempo indeterminato. Ciò, in larga misura, dipende dal fatto che sempre più è concepito, sia dal datore di lavoro che dal lavoratore, come una occasione per migliorare il capitale umano del lavoratore, che apprende o si perfeziona e specializza in una certa attività economica. Inoltre esso consente alle due parti di conoscersi e creare una efficace collaborazione. Se ciò è vero, tanto più dura il contratto a termine, tanto più questi due fattori operano positivamente. Da ciò si desume che è sbagliato alla radice e controproducente l'impianto del decreto Dignità, basato sul principio di ridurre la durata dei contratti a termine, mediante divieti ai loro rinnovi, aumenti dei contributi sociali e l'inserimento di clausole «causali» per giustificare i rinnovi che si prestano a contenziosi costosi e rischiosi per le imprese. Il decreto Dignità blocca i meccanismi virtuosi del mercato, sulla base di una concezione dirigista arcaica, intrisa di residui mal digeriti di marxismo, in cui campeggia il demonio dello sfruttamento del lavoro da parte dell'imprenditore. Questo decreto che asserisce di voler dar dignità al lavoro, riduce la capacità dei contratti a termine di generare contratti a tempo indeterminato, mediante la formazione sul campo del capitale umano e mediante il miglioramento della conoscenza reciproca fra le due parti. Per capire la posta in gioco presento due numeri desunti dalle analisi della Fondazione Anna Kuliscioff, basate su rilevazioni Inps. Il primo numero riguarda la percentuale dei contratti a termine che, negli ultimi anni, si sono trasformati in tempo indeterminato: il 10, 5% circa; una cifra simile a quella della Francia e della Spagna, molto inferiore a quella della Germana, che in quelle statistiche non viene resa nota. Bisogna tenere presente che la maggior parte dei contratti a termine è di 3 mesi e che gran parte riguarda il turismo e altri lavori stagionali che da un anno all'altro fluttuano. È un dato strutturale di flessibilità del sistema. Ma si tratta anche di un dato che, in parte, riflette situazioni intrinseche di debolezza del sistema. Dato ciò è illogico supporre che ostacolando con lacci legali e laccioli fiscali i contratti brevi, questi vengano trasformati i contratti stabili a tempo indeterminato. Se un organismo è debole non lo si trasforma in organismo robusto riempendolo di botte. Occorrono dei tonici. Ma se la crescita diventasse stabilmente il 15,5% come nei primi cinque mesi del 2018, ciò significherebbe che la patologia sta sparendo. Cade la premessa su cui si basa il dl Dignità. A prova di ciò ecco il secondo dato, sul numero medio dei contratti a termine che ogni anno si creano che può esser stimato in 600mila unità. Se i contratti a termine che diventano a tempo indeterminato sono 150mila come coi dati dei primi 5 mesi del 2018, costituiscono un quarto del totale: il corpo sta guarendo per suo conto, non serve il medico Di Maio.

Il mercato fa molto meglio.

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