Cronache

"I social li portano a sfidare la morte: vanno spenti"

Lo psicologo: "Cercano di superare il limite fermandosi all'ultimo. Solo per sconfiggere la fine"

"I social li portano a sfidare la morte: vanno spenti"

«La morte non ci fa paura, la guardiamo in faccia».

Professor Gustavo Pietropolli Charmet questa frase nasconde bullismo o condizionamento dei social?

«Qui il bullismo non c'entra nulla. Semmai la colpa è di Internet che insegna il contrario di ciò che è giusto. Bisognerebbe spegnerlo».

E siccome non si può, che fare?

«Purtroppo noi genitori siamo perdenti. Se noi diciamo ai ragazzi andare in giro in motorino in tre è pericoloso o salire sui tetti delle case è pericoloso, non serve a nulla. Perché poi c'è mamma Internet che invece di suggerire prudenza, creatività, altruismo, fa pubblicità a tutto ciò che è rischioso e raccoglie un successo enorme. Gli adolescenti voglio essere ammirati da un pubblico che fa il tifo per loro e le loro gloriose gesta».

Dunque a loro non fa paura la morte?

«No, al contrario, è proprio nell'adolescenza che scoprono che prima o poi moriranno. I bambini hanno paura della morte della mamma o del papà ma non pensano alla propria. A 15 anni si diventa consapevoli della non immortalità della loro vita. E hanno paura».

Quali sono le reazioni a questa consapevolezza?

«Ci sono quelli che hanno semplicemente paura e lasciano cadere il pensiero. Altri, invece si appassionano, si assillano, si innamorano del concetto. E ragionano così: siccome abbiamo paura della morte, andiamo a sfidarla per dimostrare che, anche se esiste, noi la battiamo perché siamo abili, coraggiosi e ci mettiamo in salvo all'ultimo secondo. Purtroppo non è sempre vero».

Non è una sfida patologica?

«Per alcuni diventa un modo di dimostrare al mondo dei social che sono audaci e che, nonostante la morte sia in agguato, loro riescono sempre a cavarsela. Vogliono diventare immortali, così vanno sui cornicioni, fanno sport pericolosi, si strangolano per dimostrare di sapersela cavare. Si spingono la massimo del rischio e del pericolo per poi fermarsi all'ultimo secondo. È come sfidare la morte e batterla resuscitando».

Si sentono onnipotenti?

«Esattamente. E anche chi non rischia così, si fa del male in altri modi. Si rimbambisce di canne, si imbottisce di birra. E se gli chiedi, ma perché? Rispondono: non è pericoloso e poi ho la situazione sotto controllo».

Quindi questi adolescenti non sanno cosa sia davvero la morte.

«La nostra società narcisistica ha appaltato la morte agli ospedali, ormai non si muore più a casa, non si veglia la salma e questi ragazzi recepiscono soltanto stimoli che gli dicono che la morte è reversibile».

Come si può intervenire?

«Educandoli alla morte, argomento da metter all'ordine del giorno, a casa e a scuola. Verificare se è proprio così importante nasconderla, far vede la bare e non far vedere mai il morto».

Ma non ci si dovrebbe allarmare quando tuo figlio fa imprese rischiose e poi le condivide sui social?

«La famiglia in questo caso non può fare nulla, non puoi impedire a un quindicenne di vedere gli amici. Certe gesta non si possono prevedere, si attuano in gruppo e loro pensano che non si cresce se non si rischia, se non ci si spinge al limite estremo. Sanno anche che morire non è eroico.

Amano solo uscire vincitori dopo avere sfidato il rischio e raccogliere consenso dal gruppo».

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