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I vertici dello Stato sapevano del "metodo Woodcock"

Nel 2007 una relazione al Csm denunciava i sistemi spregiudicati usati dal pm. Gli stessi sotto accusa oggi

I vertici dello Stato sapevano del "metodo Woodcock"

Son dieci anni almeno che tutti, ai vertici dello Stato, sono al corrente del sistema d'indagine di John Henry Woodcock. Son dieci anni almeno, a partire dalla presidenza di Giorgio Napolitano, che il Consiglio superiore della magistratura s'affanna a dimostrare di preoccuparsene. Son dieci anni almeno che le inchieste del pm anglo-napoletano si ripropongono all'opinione pubblica con la stessa meccanica e (quasi sempre) gli stessi esiti. Già nel 2007, Woodcock finì davanti al Csm per una serie di presunte violazioni all'epoca degli arrembanti fascicoli di Potenza contestazioni da cui fu assolto, è bene specificare che ricalcano perfettamente quel che sta accadendo in queste settimane attorno al procedimento Consip.

Basta andare a rileggere quel che, nel marzo di quell'anno, fu pubblicato (e oggi dimenticato) sulle dichiarazioni del Procuratore generale del capoluogo lucano Vincenzo Tufano in merito alla condotta del pubblico ministero con la Harley Davidson. «Il dottor Woodcock attaccò il magistrato - si è creato una procura dentro la procura, un'enclave impenetrabile di pretoriani suoi, fatti di vigili urbani e di polizia stradale. Un'enclave impenetrabile allo stesso procuratore. Porte chiuse. Fedelissimi che danno conto solamente a lui». Insomma, una «polizia privata» al servizio esclusivo di JHW. Che è un po' quel che sembrerebbe essere accaduto col Noe del capitano Gianpaolo Scafarto e del colonnello Ultimo, chiamato a esondare dalle competenze del Corpo la tutela dell'ambiente e la bonifica delle discariche per inseguire bancarottieri, trafficanti d'influenze, manager di holding di Stato, politici e presidenti del Consiglio (Berlusconi prima, Renzi poi).

Parlando di gestione a briglia sciolta dei procedimenti, Tufano riportò un aneddoto risalente a qualche mese prima. «Quando c'è stato il caso Savoia, il procuratore Galante non sapeva assolutamente niente». A dirglielo fu Woodcock in un corridoio in questi termini: «Procurato', allora l'arrestamm a stu fetentone do Re?». Di comunicazioni nei corridoi si è tornato a parlare in questi giorni, quando è emerso che, a Napoli, W. avrebbe comunicato solo in forma orale all'allora capo della Procura Giovanni Colangelo l'iscrizione nel registro degli indagati per millantato credito del magistrato Rosita D'Angiolella. Procedura non contemplata (ovviamente) dal codice, che prevede invece l'immediata comunicazione al Csm.

Nella relazione di Potenza c'è spazio anche per la «spinta ad avere notorietà» di Woodcock, oltre che per «disinvoltura per la libertà delle persone», ma, soprattutto, c'è un riferimento assai significativo alle indagini che hanno riguardato l'Arma dei carabinieri. Carabinieri che da investigatori diventano indagati o imputati, poi archiviati o assolti. A Potenza, Woodcock mise sott'inchiesta il generale Stefano Orlando, poi transitato nelle fila dei Servizi segreti, l'ex comandante generale Guido Bellini, quello provinciale Blangiardo; tutti innocenti. «Woodcock fu la requisitoria di Tufano - ha intercettato perfino i carabinieri, ma a livello di capo di Stato maggiore regionale... e del comandante provinciale. E li ha intercettati mentre la mia procura generale, insieme ai carabinieri, faceva un'inchiesta delegata proprio sulla procura della Repubblica. Un fatto estremamente grave di cui ho dato conto nelle mie relazioni».

Carabinieri che indagano sui colleghi, una scena già vista: oggi nel procedimento Consip sono accusati di rivelazione di segreto (lo stesso capo d'imputazione che Roma contesta a John Henry) il generale dei carabinieri Emanuele Saltalamacchia e il comandante generale Tullio Del Sette. A rovistare sul loro operato erano il capitano Scafarto e il suo gruppo di collaboratori in divisa.

Altro motivo di contrasto tra Procura e Arma messo in luce da Tufano all'epoca fu un'indagine durata 18 mesi, «il massimo delle proroghe», a carico del comandante provinciale che «aspirava a diventare comandante dell'aliquota carabinieri». Nel fascicolo c'era «quasi niente», però con l'iscrizione «gli hanno bruciato la candidatura». Lo stesso destino del generale della Guardia di finanza Vito Bardi, indagato per due volte, e in entrambi i casi archiviato, a Napoli da Woodcock, mentr'era sul punto di diventare il numero uno delle Fiamme gialle.

Coincidenze, sia chiaro.

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