Politica

I vivi accanto ai morti per l'ultimo abbraccio al funerale in palestra

Pure i parenti feriti alla cerimonia di Stato Promessa delle istituzioni: non vi lasciamo

Emanuela Fontana

da Ascoli Piceno

L'odore di questo terremoto è polvere, sangue e fiori, un odore caldo che sembra un profumo di petali o carne che lotta, a intermittenza, come se fosse entrambe le cose. C'è stata una lotta tra uomini, donne, bambini e la natura. Una battaglia con il terremoto viva nei lividi alle braccia di un'anziana donna che conquista metri di spazio verso la sua sedia, nelle garze bianche intorno alle mani che hanno scavato tra le macerie, e ora stringono quello che trovano, spalle, braccioli, fazzoletti.

Una battaglia di corpi che lascia dolore nelle ossa dei tanti che arrivano in carrozzina. Ognuno prende il suo posto, accanto alla bara. Con i lividi, in carrozzina, graffiati, salvi. Come padrini e madrine di neonati, angeli custodi che sforano un cuscino, madri, padri, figli, nonni, nipoti delle vittime del terremoto siedono non dietro, come capita sempre a un funerale, ma accanto ai loro cari. Come se fossero uguali, i morti vivi e i vivi morti, come se il destino che ha deciso come un muro dovesse cadere un po' di qui o un po' di là non fosse ancora definito. È il terremoto della saetta che colpisce a casaccio, la faglia che spacca i piccoli paesi di una riva del fiume e risparmia quelli di fronte, dei muri che si sgretolano in un punto e non pochi centimetri oltre, una casualità che di notte decide chi vive e chi no. Molte delle persone che pregano sedute e che forse ascoltano in una bara, dormivano insieme, o vicini, nella stessa stanza o in stanze accanto, quando c'è stato il terremoto. Come Giulia e Giorgia. Giulia che riposa in una bara bianca e Giorgia che aspetta nel reparto di pediatria a pochi centinaia di metri da qui che la mamma arrivata al funerale in barella torni da lei per festeggiare il compleanno. Giulia ha coperto Giorgia con il suo corpo, dice il vescovo, monsignor D'Ercole nell'omelia. Il sacrificio di Giulia, 9 anni, per Giorgia, la piccola, che ne compie quattro. «Le hanno trovate abbracciate». Non è stata solo lotta contro il terremoto, ma anche contro la paura, tutti gli istinti che si sprigionano come spiriti da un'anfora, e per Giulia l'istinto è stato quello di proteggere la sorellina.

Nella palestra comunale di Ascoli che accoglie il funerale solenne delle prime 35 vittime su oltre 290 che avranno sepoltura, questo terremoto diventa favola, e tutti imparano a conoscere il cartone animato Frozen, la storia delle due sorelline e della coraggiosa Anna, perché per spiegare a Giorgia che Giulia non c'è più amici, clown e pediatri faranno questo: parlarle con le bambole.

La chiesa è una palestra, l'altare montato al posto della porta di calcio, il vescovo che dice messa nella posizione del rigorista e ammette. «Quante volte ho chiesto a Dio: Signore, e adesso che si fa?». È la palestra accanto all'ospedale, che era stato il primo luogo del riconoscimento dei corpi, portati avvolti in lenzuoli bianchi non sigillati all'altezza del viso. Lì si dà l'ultimo saluto, in un caldo che schiaccia, in quell'odore portato fin dal primo giorno, petali e carne che cerca un varco. L'organizzazione invita a sedersi sugli spalti. Ma non c'è bisogno di chiedere compostezza. I vivi che vegliano i morti sembrano assorti in un bisbiglio della mente come se parlassero con una parte di se stessi, e così in fondo è chi è morto accanto.

Dietro alle file delle bare prendono posto il presidente della Repubblica Mattarella, Il premier Renzi con la moglie Agnese, Piero Grasso, Laura Boldrini. «Non voi lasceremo soli», ripetono a fine cerimonia a chi si avvicina. Agnese si commuove, le vengono in molti intorno in quello spazio del destino tra le sedie e le bare, di fronte all'altare. Massimiliano Piermarini arriva in carrozzina, con il braccio ingessato, per stare vicino alla sua Marisol, morta a 18 mesi nel terremoto.

Sulla bara bianca di Giulia il pompiere Andrea lascia un biglietto: «Ciao piccola, scusa se siamo arrivati tardi».

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