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Incensurato e con la pensione, la morte-beffa del boss Toni

Per dieci anni Antonio Nirta, capo 'ndrina di San Luca, ha incassato dall'Inps. Dopo il decesso però lo Stato ha vietato le esequie pubbliche

Incensurato e con la pensione, la morte-beffa del boss Toni

Solo quando è morto, lo Stato si è accorto di chi fosse in realtà. Nei venti anni precedenti, ombre e sospetti non avevano impedito ad Antonio Nirta, per gli inquirenti gran capo della 'Ndrangheta di San Luca, di ricevere ogni mese il bonifico della pensione.

Il padrino è stato tumulato alle prime luci dell'alba di ieri mattina nel cimitero di Benestare, il Comune della Locride di appena 2500 anime dove faccendieri e uomini d'onore andavano a cercarlo per chiudere un affare o fermare una guerra o semplicemente per un consiglio. Se n'è andato così com'è vissuto per 96 anni: nel silenzio e nell'oscurità. Il Questore di Reggio Calabria ne ha vietato le esequie pubbliche. Un po' perché vorticano ancora nell'aria i petali di rosa lanciati dall'elicottero in occasione dei funerali-show di Vittorio Casamonica qualche giorno fa a Roma, un po' perché in Calabria è ormai prassi che gli addii ai personaggi più in vista della mafia locale avvengano in forma strettamente riservata, e sotto gli occhi delle forze dell'ordine che vigilano su possibili attentati o regolamenti di conti. È stato tumulato in fretta, sotto gli occhi dei pochi parenti che hanno partecipato al rito funebre. Niente gigantografie in abito bianco papale, nessuna televisione e soprattutto nessun clamore.

Antonio Nirta è stato per quasi mezzo secolo al vertice della «Maggiore», una sorta di holding mafiosa tra le famiglie più potenti. Invisibile e fin troppo ingombrante. Perché quello stesso Stato che gli ha pagato prima lo stipendio da caposquadra forestale e poi l'assegno previdenziale, ha provato in più occasioni a metterlo ai ceppi. Mai riuscendoci, però. Al massimo, gli inquirenti sono riusciti a sequestrargli un tesoro di sei milioni di euro. Soldi, quote societarie e beni immobili. Un po' troppo per uno che guadagnava appena 1000 euro al mese.

Nirta compare qua e là, imprendibile fantasma, nelle pagine delle informative e delle ordinanze della magistratura che hanno scardinato il sistema di potere criminale delle 'ndrine in terra calabra. Eppure, le prove per chiuderlo in galera non sono mai arrivate. Sfuggente e diffidente come solo un calabrese può essere, don Antonio è sgusciato anche dal maxiprocesso Condello (oltre 200 imputati) che decapitò la Piovra di Locri. Era temuto e rispettato nell'ambiente. Manteneva contatti con i pari grado delle associazioni mafiose nazionali e internazionali. Dava del tu a Riina , Provenzano e Cutolo.

Dicono non fosse un sanguinario. Anzi. Spesso era chiamato a vestire i panni del diplomatico nella gestione delle sanguinose faide degli anni Ottanta e Novanta, quando in strada restavano stecchiti sotto i colpi di lupara affiliati e simpatizzanti di fazioni in lotta come i De Stefano, i Pelle-Vottari e gli Strangio. L'aristocrazia mafiosa della 'Ndrangheta che cercava di annientare se stessa, e lui che mediava.

Il pentito Saverio Morabito rivelò che Nirta avrebbe fatto parte del gruppo di fuoco che rapì Aldo Moro nel 1978. Il capoclan di San Luca si sarebbe infiltrato nelle Brigate rosse per volere del generale dei carabinieri Delfino e dei Servizi segreti, e avrebbe partecipato all'agguato al presidente della Dc grazie alle sue doti di infallibile cecchino. Per qualcuno, sarebbe lui il misterioso killer che quasi da solo neutralizzò la scorta dello statista democristiano.

La certezza vera e incontestabile è che il boss è uscito indenne da tutti i processi in cui hanno voluto ficcarlo: muto e immobile come gli alberi secolari che, da agente forestale, doveva sorvegliare sull'Aspromonte. Aveva un fiuto speciale per evitare i guai. Forse per questo a San Luca lo chiamavano «Ntoni due nasi».

«Il Giubileo ha sempre costituito l'opportunità di una grande amnistia». Papa Francesco invoca la misericordia di Dio sui detenuti italiani, il leader radicale Marco Pannella chiama in causa il Quirinale («Voglio incontrare Mattarella perché dipende da lui») e il presidente del Senato apre: «Il Parlamento affronti il tema, decidendo se una legittima aspirazione della Chiesa possa diventare un fatto politico rilevante». L'ultima delle 27 amnistie vidimate dalla politica risale al 1990, poi solo indulti (che invece cancellano la pena in tutto o in parte) come l'ultimo del 2006. A urlare forte il suo «no» è Matteo Salvini, insolitamente d'accordo con il ministro dell'Interno Angelino Alfano: «Se devi farti dieci anni di galera perché hai stuprato, rubato, spacciato, non è che perché c'è il Giubileo esci cinque anni prima e ricominci a stuprare, rubare, spacciare», dice il leader leghista. «Chi sbaglia ed è condannato invia definitiva in carcere ci sta fino all'ultimo giorno», è l'affondo del segretario Ncd.

A mettere la parola fine al dibattito in serata è stato il ministro della Giustizia Andrea Orlando: «L'amnistia e l'indulto sono delle gigantesche lotterie», ha detto il Guardasigilli alla festa nazionale dell'Unità a Milano spiegando che a un provvedimento straordinario il governo preferirebbe un cambio strutturale che riguarda l'esecuzione della pena.

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