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Inglesi sempre più dubbiosi sulla Brexit

Molti pentiti fuori tempo massimo. Europeista vince seggio alle suppletive

Inglesi sempre più dubbiosi sulla Brexit

Erica Orsini

Londra Brexit? Forse non è poi un gran affare. Sono passati quasi sei mesi dalla vittoria di Leave e una parte sempre più significativa della popolazione si riscopre più europeista di quanto pensasse. Contando quelli che si sono pentiti di aver votato d'istinto e quelli che si sono accorti di non avere la minima idea di quello che sarebbe accaduto una volta che il loro Paese fosse uscito dall'Europa, aggiungendo tutti gli espatriati che da venti e più anni hanno fatto del Regno Unito la propria casa e altri idealisti che credono nell'Unione Europea, la percentuale degli anti-Brexit si fa sempre più ampia.

A dimostrarlo ci sono anche dei fatti politici eclatanti come la clamorosa vittoria della liberaldemocratica Sarah Olney alle elezioni suppletive di Richmond. Una neofita della politica, dichiaratamente europeista, ha messo inaspettatamente al tappeto il candidato indipendente Zac Goldsmith dato per favorito. Goldsmith, che all'inizio si era presentato con i Conservatori, aveva appoggiato la campagna referendaria di Leave e la sua sconfitta si è immediatamente tradotta in un messaggio anti-Brexit. Tra i primi a congratularsi con la Onley è stato infatti il capo dei negoziatori al Parlamento Europeo Guy Verhofstadt che ha fatto sapere alla vincitrice che «l'Europa sta osservando» quello che accade nel suo Paese.

Va ricordato che Verhofstadt è lo stesso politico che ha proposto di approvare un regolamento che consenta ai cittadini inglesi che vogliono rimanere nell'Unione Europea di «comprarsi» una cittadinanza su misura.

Comunque vadano a finire le cose, sembra allontanarsi sempre più quell'ipotesi di hard Brexit tanto caldeggiata da alcuni parlamentari. Alla Corte Suprema iniziano le audizioni per l'appello presentato dal governo contro la sentenza dell'Alta Corte che obbligherebbe l'esecutivo a sentire l'opinione del Parlamento prima di attivare l'articolo 50. Anche se il ricorso dovesse venir respinto, è improbabile che la Camera dei Lord vanifichi il volere popolare, tuttavia si preannuncia per il governo una lunga battaglia prima di raggiungere un accordo che soddisfi euroscettici ed europeisti convinti con tempi decisamente più lunghi di quelli inizialmente annunciati dalla May nel giorno del suo insediamento.

È già certo che «Brexit non significa Brexit» per parafrasare l'ormai nota frase della Premier, casomai si sta andando verso una serie infinita di compromessi che mirano a lasciare le cose più o meno come stanno, sia sul fronte del mercato unico che su altri. E i voltafaccia dei rappresentanti istituzionali britannici a volte sono perfino imbarazzanti. È il caso di Boris Johnson, insolito ministro degli Esteri e feroce sostenitore di Leave che negli ultimi giorni ha sostenuto che la Gran Bretagna non rimanderà indietro la forza lavoro straniera né ostacolerà la costituzione di un esercito europeo costringendo poi Downing Street ad aggiustare il tiro.

E mentre il ministro del Tesoro mette in guardia il governo dai danni provocati dall'uscita dell'Europa, il ministro degli Affari Internazionali tenta di salvare capra e cavoli ipotizzando un accordo che consenta al Paese di rimanere all'interno dell'Unione doganale europea.

In fondo per uscire dall'Europa, non c'è fretta.

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