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"Io, Griffith, l'America e quella notte magica che mi trasformò in re"

Mezzo secolo fa l'epica impresa che regalò il titolo dei medi al pugile italiano: "Che guerra"

Nino Benvenuti e Emile Griffith sul ring
Nino Benvenuti e Emile Griffith sul ring

Che notte, quella notte del 17 aprile 1967. Al Madison Square Garden di New York, Nino Benvenuti strappava al pugile di casa Emile Griffith la corona mondiale dei pesi medi. Quindici riprese palpitanti di una sfida leggendaria che la Rai, per non turbare il ritmo lavorativo dell'intera nazione, decise di non trasmettere.

Arrivato a New York, gli americani quasi la snobbavano. Lei cosa ha pensato?

«Ne ero certo, perché conoscevo le qualità di Emilio e sapevo che sarebbe servita un'impresa. Ma questo mi ha favorito perchè a partire battuti si ha meno da perdere che partire col vantaggio del pronostico».

Era la sfida tra un uomo bianco e uno di colore.

«Quelli di colore hanno una potenzialità muscolare atletica superiore alla nostra. Ma loro non sapevano chi io fossi. Io venivo dal nord d'Italia, sono istriano, lì c'è gente che ha le palle. Quando uno è così convinto delle proprie qualità...».

Questa sua sicurezza per la stampa significava anche arroganza.

«Sì, dicevano ah un ragazzo bello, biondo, che aveva grilli per la testa e chissà cosa pensava. Io pensavo invece di essere il più forte di tutti. Mi ero sottoposto ad allenamenti al limite della tortura pur di vincere».

E lo si è visto subito nella seconda ripresa quando manda al tappeto Griffith.

«Sono partito senza timori o paure. Ero talmente convinto delle mie buone qualità, che se fossi riuscito ad utilizzarle completamente, avrei potuto fare 15 round a muro battente».

Ma Griffith era un osso duro.

«Beh, alla fine si trattava pur sempre di una sfida tra i due migliori del mondo. E durante il match ci sono stati momenti difficili, perchè più di una volta mi ha colpito al fegato col suo montante sinistro e poi con il gancio destro e mi dicevo: porca miseria, se continuiamo così dove andiamo a finire...»

Alla quarta ripresa, colpito alla mascella con un destro, lei va al tappeto. Che momento è stato?

«C'è stata un po' di spavalderia da parte mia, l'ho affrontato con le mani troppo basse, per dimostrargli che non lo temevo, che ero bravo anche io».

Poteva essere determinante, invece

«Mi sono rialzato subito e non mi sono intimorito. Sentivo i colpi di Emilio che facevano male, pungevano, sapevo che se mi fossi rialzato potevo riprendere da dove avevo lasciato».

E alla fine ha vinto, ai punti.

«Mi sono ritrovato su quel ring, con le urla, col pubblico, che non sentivo piu niente. Ero senza parole».

Cosa ha pensato subito dopo aver vinto il titolo mondiale?

«Ho pensato a mio padre e mia madre. Loro mi hanno creato con quelle doti necessarie per vincere in un contesto come quello e battere il campione».

Come l'accolsero gli italiani?

«A New York, il giorno dopo, camminavo per strada ma era come se fossi in Italia. Ma anche gli americani mi hanno omaggiato. Mi sono sentito americano».

E dopo tre match con Griffith (tutti al Garden) ha dichiarato: «Non puoi non diventare amico di un pugile con cui hai diviso la bellezza di 45 round!»

«L'aver fatto tre incontri con un pugile come quello lì e averne vinti due è qualcosa di straordinario. Tra noi due è nata un'amicizia indelebile, tanto che mio figlio Giuliano volle Emilio come padrino alla sua cresima».

Lei le è stato vicino nella fase della malattia?

«Se fosse stato un mio fratello di sangue, avrei fatto la stessa cosa. Era lontano, ma sapevo che avrei potuto dargli una mano, tutto quello che era necessario affinchè stesse meglio».

C'è qualcosa che avrebbe voluto fare di più come pugile?

«Devo dire grazie al pugilato, lo sport per antonomasia, l'uomo contro uomo, è il massimo del coraggio, della paura. Mi sento appagato, perché questo match con Griffith mi ha reso famoso, mi ha dato quella convinzione nei miei mezzi di essere arrivato al punto maggiore che potessi arrivare, se solo l'avessi desiderato.

Ma l'ho desiderato, e l'ho raggiunto».

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