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Israele e lo choc per i killer ebrei Ma i criminali sono pochi e isolati

Due attacchi mortali in pochi giorni e il Paese scivola nel senso di colpa. Eppure la reazione delle istituzioni è impeccabile: condanna ferma e difesa della libertà

Israele e lo choc per i killer ebrei Ma i criminali sono pochi e isolati

Molte volte, dalla sua nascita, Israele è stato un Paese in lutto. Gioia e dolore si alternano qui in forma diretta e violenta, quali conoscono soltanto le società in cui la storia prende il suo pedaggio divorando spesso giovani vite umane. Ma lo spettacolo del lutto di questi giorni, che non nasce dall'attacco terrorista palestinese che richiede, per essere fronteggiato con senso di giustizia e calma, determinazione e forza d'animo, è un urlo di dolore perché è accompagnato da qualcosa che per il popolo ebraico è intollerabile, un chiodo, una persecuzione continua: il senso di colpa.

Su tutte le prime pagine ieri campeggiava il bel volto della quindicenne Shira Banki uccisa durante la parata del Gay Pride a Gerusalemme da un pazzo omofobo Yishai Shlissel. L'uomo era appena uscito di prigione, un ebreo ultra ortodosso, come si dice qui, un antisionista lo definisce chi l'ha conosciuto, un maniaco preda di una malattia mentale legata alla sessualità. Ha accoltellato sei persone, le altre cinque sono fuori pericolo. La seconda tragedia è avvenuta venerdì scorso nel villaggio arabo di Duma, vicino a Nablus, in cui l'incendio appiccato alla casa della famiglia Dawabsheh ha causato la morte di un bellissimo bambino, Ali, 18 mesi. Altri tre membri della famiglia sono all'ospedale. Lo choc dei due delitti commessi da ebrei è certamente paragonabile a quello subito dalla società israeliana per la frequente, quasi abituale mattanza terrorista di bambini ebrei: gli assassini della piccola Shalhevet Pass, uccisa da un cecchino, la famiglia Fogel, Adele Biton, gli adolescenti Eyal, Gilad, Naftali gettarono Israele nella disperazione né più né meno come l'assassinio di Shira e di Ali, stranamente legati nella sorte di essere stati travolti da un differenziato ma parimente frenetico odio ebraico. La reazione della classe dirigente è stata molto più composta di quella dei giornali e del pubblico, e questo deve dare da pensare a tutti noi ormai preda più dei media che di ogni altra espressione pubblica. L'omicidio di Shira e l'aggressione antigay sono stati visti come una lesione della sacrosanta, in Israele, libertà democratica di vivere come si vuole, e condannati con le unghie e con i denti.

Netanyahu ha anche lui condannato senza mezzi termini, definendoli terroristi da perseguire con tutta la possibile severità. Una riaffermazzione della linea classica per cui Israele è punto di riferimento nel mondo, oltre che in tutto il Medio Oriente, del rispetto legislativo e sociale dei gay. Gli episodi di fuga in Israele di giovani provenienti dai territori palestinesi è consueto, Israele è il rifugio obbligatorio per smettere di rischiare la vita ogni giorno. Ma, ironia della sorte, l'attacco ha portato via la vita di un fiore che voleva solo partecipare a un momento di lotta per la libertà. I media, oltre ad attaccare la polizia e a sostenere che se avesse individuato un arabo con atteggiamento aggressivo l'avrebbe certamente fermato prima dell'atto fatale, insistono anche sull'omofobia dei religiosi estremisti. Dato realistico, ma la conseguenza che se ne trae, ovvero che gli ortodossi sono pericolosi e odiosi in quanto tali, va oltre la linea del pensiero logico. Prova ne sia che l'idiota assassino è sempre lo stesso aggressore che già dieci anni fa aveva tentato lo stesso crimine ed era per questo in galera fin'ora. Ci doveva restare ancora? Probabilmente si. Non è stato abbastanza sorvegliato? Certamente no. Ma non era membro di una banda omofoba assassina, anche se fra gli ultraortodossi certo ci sono quelli che sanzionano gli omosessuali in modo aggressiva.

Di fatto, la società israeliana nei dibattiti sui giornali si autocriminalizza nel suo insieme, e ancora di più lo fa per la morte di Ali. Di nuovo, le reazioni del governo sono state durissime: Netanyahu dopo aver condannato il delito definendolo terrorista, promettendo giustizia, scusandosi, ha telefonato ad Abu Mazen per profondersi in parole di lutto e vergogna. Non si è mai visto che una cosa simile sia stata fatta da un leader palestinese dopo i delitti prima elencati. Ma il presidente Reuven Rivlin si è spinto oltre: «Vergogna. Ogni società ha le sue frange estremiste ma che cosa c'è nell'atmosfera pubblica che permette all'estremismo e agli estremisti di muoversi con tanta tracotanza?». Questa richiesta di ammettere una colpa collettiva ha suscitato un doloroso dibattito che ha diviso ancora l'opinione pubblica fra chi, ed è logico a sinistra, ritiene che l'era Netanyahu abbia portato a una strisciante presa di distanza dai principi della tolleranza e del rifiuto del razzismo, e chi invece non crede che Israele soffra per mancanza di moralità, al contrario. Rivlin, inoltre, sembrava accusare i coloni, che per la grande maggioranza sono cittadini quieti, imbevuti di principi positivi verso il prossimo come detta l'ebraismo («ama il prossimo tuo come te stesso» è una legge ebraica, non cristiana come spesso si crede) e non hanno niente a che fare con il gruppuscolo post sionista che al posto dello Stato Ebraico vuole stabilire un «reame di Dio». Sono pochi e isolati.

Le ingiuste generalizzazioni mettono Israele nell'angolo e servono a spingerlo verso il tribunale dell'Aia, come richiedono i palestinesi.

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