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Israele piange Shimon Peres, l'ultimo dei padri della patria

Fu tra i fondatori dello stato ebraico e vinse il Nobel ma il sogno della pace coi palestinesi è rimasto utopia

Israele piange Shimon Peres, l'ultimo dei padri della patria

Ancora un giorno, un minuto prego, non aveva ancora concluso, non aveva ancora finito. E così la morte ha aspettato un poco, come a far intendere che il suo lavoro è rimasto incompiuto, ma i miracoli non sono di questo mondo; anche se, dopo l'ictus del 13 settembre è un po' tornata indietro: la famiglia ha smesso per qualche giorno di piangere, la stampa ha lasciato il corridoio dell'ospedale di Sharee Tzedek, i commentatori che già avevano preparato il coccodrillo hanno smesso di incensarlo o di vituperarlo. Shimon poi però se n'è andato, che peccato; in questo intervallo avevo pensato che fosse eterno davvero, coi suoi 93 anni così ben portati. Ancora nel giorno dell'ictus aveva postato un video in cui invitava con entusiasmo a comprare prodotti israeliani, specie la frutta: «tutti vogliono un vassoio di frutta israeliana!».

Molti pensano che ne ha sbagliate troppe, a volte creando per Israele situazioni pericolose, che il suo sostenere la causa della pace era un marchingegno troppo politicamente corretto per essere sincero fino in fondo. Può darsi: non ha aiutato nessun processo di pace la sua insistenza sulla speranza di una pace con i palestinesi anche nei momenti della Seconda Intifada dei terroristi suicidi, la sua inutile speranza che Arafat, da lui riabilitato, potesse improvvisamente mostrargli, invece che la ghigna dell'odio, una faccia sorridente come quella che aveva esibito insieme a Rabin e a lui quando presero il Nobel per la pace nel 1994, all'indomani dell'inutile eppure tanto lodato accordo di Oslo.

Ma il suo stile, la sua passione indomita per lo Stato Ebraico fatta di grande determinazione a conservarne la sicurezza mentre portava la bandiera israeliana in giro per il mondo come un vessillo di pace, hanno invece fatto gran bene al Paese. La sua figura ha nobilitato la considerazione di Israele nel mondo. Per lui pace e sionismo non sono mai stati disgiunti, e addirittura non sono stati mai disgiunti pace e bomba atomica: fu lui, su incarico di Ben Gurion, a esserne il principale fautore. Probabilmente senza la sua capacità di trattare coi francesi Israele non avrebbe mai potuto avere la sua arma di difesa definitiva.

Il libro intero di interviste che ho fatto negli anni a Shimon Peres allaga la mia scrivania. Una delle prime è dell'87, mentre stava per andare da Amsterdam a Londra: là, in mezzo alla notte, lo aspettai seduta, mezza addormentata, a un tavolo ai piedi di un letto nella stanza degli ospiti della casa reale. Era esausto ma accettò di parlare: come sempre invece di enunciare mormorava, era come se trattenesse almeno una parte del suo sogno dentro al cuore anche mentre te lo comunicava. Era un momento straordinario, Stava per incontrare, in segreto, re Hussein per tessere la trama di quelli che da lì a qualche anno sarebbero diventati gli accordi di Oslo.

Gli incontri diretti con i palestinesi e col mondo arabo in generale erano tabù a quel tempo, e lo restarono per un bel po'. Nei miei ricordi personali ce ne sono alcuni molto importanti: una volta Uri Savir, il suo braccio destro, mi telefonò per chiedere se avevo modo di trovargli in Italia un luogo tranquillo. Una intelligente nobildonna fiorentina, Bona Frescobaldi (ne ricordo il nome a suo onore) si dette subito da fare per ospitare in una sua casa di campagna due delegazioni che arrivarono nel cuore della notte. Credo che ne facesse parte anche Abu Mazen.

Peres ha tessuto in silenzio e gridando, alla luce del sole e nelle stanze del potere quella pace che non è mai venuta, quel nuovo Medio Oriente che si è scontornato nel caos odierno. Ha preso una strada certamente molto accidentata e destinata a scontrarsi con ostacoli insormontabili. Non ha mai voluto considerare la terribile determinazione islamica a eliminare lo Stato Ebraico.

Perché era un ragazzo socialista polacco, un sionista pieno di ardore sociale e internazionalista. Si chiamava, quando è nato in Polonia, Shimon Perski, è l'unico israeliano che sia stato sia presidente (dal 2007 al 2014) che primo ministro (dal 1984 al 1986 e poi dopo la morte di Rabin, di cui era il conflittuale gemello politico, dal novembre '95 al giugno del '96). Gioie e dolori sono parte della storia di queste altissime cariche, come di tutte le innumerevoli altre che ha ricoperto: tre volte Ministro degli Esteri, due ministro della Difesa, una ministro delle Finanze e dei Trasporti. I suoi risultati, sempre straordinari, sono stati però punteggiati sovente da critiche tremende e da sconfitte politiche: le più cocenti sono forse state quelle del '77 perché era la prima volta che il partito laburista, in un paese semisocialista come Israele, perdeva il potere; e poi certo quella del '96, quando il potere passò a Netanyahu. La guerra che ha subito all'interno del suo partito, come quella che gli fece Ehud Barak per impedirgli di diventare presidente del partito nel '99, è paragonabile solo alla sua sconfitta, disgraziatissima, per la carica di presidente di Israele quando fu invece eletto Moshe Katzav nel 2000, una carica che poi si è ripreso nel 2007.

In compenso ha vinto tante di quelle battaglie politiche, fra cui soprattutto quella degli accordi Oslo con tutti i suoi annessi e connessi, che è difficile persino enumerarli. Oltre alla sua magnifica ispirazione culturale e ideale praticava parecchio anche il suo mestiere di politico. Col suo ritorno nel 2001 sostituì con gusto Ehud Barak alla leadership del partito; gli toccò il ruolo difficile e straordinario di ministro degli esteri del governo Sharon, in un equilibrio funambolico con quello che avrebbe potuto essere il suo peggior nemico. Si preparava, a costo di pesantissime critiche da ogni parte, a quello sgombero di Gaza che, voluto da Sharon, ha avuto in lui un grande sostenitore.

La seconda Intifada lo ha visto disperato nel tentativo di non lasciare il suo sogno infrangersi sulle esplosioni, ma anche nel tentativo spesso inutile di risvegliare il mondo alle ragioni di Israele. Ce n'è traccia in tutte le sue interviste, in tutti i suoi discorsi: odiava la colpevolizzazione insensata del suo Paese, sapeva benissimo che nel mondo il suo volto veniva continuamente sfregiato dalla diffamazione, e credo che per questo siamo rimasti amici anche quando per me è stato davvero impossibile condividere la sua speranza di pace basata su Oslo.

Peres era di sicuro geniale: la sua passione per l'alta tecnologia, la sua curiosità cocente per la nanotecnologia, la sua ammirazione per Zuckerberg che chiamava «quel ragazzino ebreo di 27 anni» erano tutte legate alla sua idea di fondo. Nel senso che vedeva in Facebook e simili la rivoluzione vera, quella del suo cuore, quella che da giovane kibbutznik socialista israeliano intendeva come il superamento di ogni confine, di ogni barriera. Questo non entrava mai in contrasto con l'idea che l'autodifesa, da soli, da coraggiosi, è l'unica scelta possibile di Israele. I buoni rapporti con gli Usa e con l'Europa non cancellavano la sua determinazione a combattere il terrorismo, a costruire recinti di difesa e a essere molto cauti nel pensare di cedere territori.

Ma la sua capacità di irraggiare intelligenza e speranza era quella di un papa, di un attore cinematografico, di un'icona accettabile e adorabile da tutti. Uomo di parte com'era, rappresentava tutta Israele: aveva nel volto tutta la sofferenza per le persecuzioni e poi tutta la gioia del popolo ebraico che è tornato a casa. Ha vissuto minuto per minuto la fatica e la vittoria della costruzione di Israele.

Non c'è più nessuno come lui.

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