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L'addio di Fabo è un atto d'accusa: "Finisce l'inferno non grazie allo Stato"

Alle 11.40 di ieri l'ex dj è morto in una clinica svizzera. Per praticare l'eutanasia ha dovuto mordere un pulsante. Un cocktail di farmaci l'ha prima addormentato, poi in mezz'ora gli ha fermato il cuore. Con lui il radicale Marco Cappato: ...

L'addio di Fabo è un atto d'accusa: "Finisce l'inferno non grazie allo Stato"

Ha preso la vita a morsi per trentasette anni, per poi prendere a morsi la morte in un attimo. Quella morte che ha voluto chiamare lui perché lei sembrava essersene dimenticata. Fabiano Antoniano, dj Fabo, è morto ieri alle 11,40 in una clinica svizzera, mordendo con l'unica parte del corpo che poteva muovere, la bocca, il pulsante che ha dato via libera all'immissione nel suo corpo del cocktail di farmaci che lo ha prima addormentato e in mezz'ora ucciso. Per qualcuno, come Roberto Saviano, è un «cristo», per altri una specie di codardo.

Formalmente si è suicidato, firmando con i denti forti da quarantenne la sua ultima volontà. Si chiama suicidio assistito. Anzi, in Svizzera, dove l'ex dj reso cieco e tetraplegico quasi tre anni fa da un incidente stradale è espatriato per morire da esule in uno chalet lugubremente vezzoso, la definiscono burocraticamente «assistenza medica alla morte volontaria». Chi ha affiancato Fabo nel suo atto estremo ha preparato tutto per bene (diciamo per bene) ma è stato lui stesso a staccarsi la spina da solo. Altrimenti sarebbe stata eutanasia, che anche in Svizzera è un reato. Forse è ipocrisia, forse un male necessario, comunque una roulette russa con tutti i proiettili al loro posto.

La clinica Dignitas ha una casella postale a Forch, una località di montagna nel cantone di Zurigo, e da lì chi ha la vista vede il lago, non Fabo. Lui ci è arrivato sabato scorso, anche se solo domenica si era sparsa la notizia. Un viaggio in automobile di cinque ore e passa, una piccola comitiva del dolore travestita da sollievo e allegria composta da lui e dalla sua fretta di arrivare e da Marco Cappato dell'associazione Luca Coscioni. Sarà lui ora a rischiare 12 anni di galera, e per rischiare meglio si autodenuncerà alle autorità italiane come aveva già fatto nel dicembre 2015 quando aveva portato a morire Dominique Velati, una militante radicale malata terminale. Per molti un tour operator della morte, per altri un eroe. E Fabo era tra questi ultimi e infatti a Cappato ha voluto dedicare uno degli ultimi messaggi rilanciati dai social network: «Volevo ringraziare una persona che ha potuto sollevarmi da questo inferno di dolore. Questa persona si chiama Marco Cappato e lo ringrazierò fino alla morte. Grazie Marco, grazie mille». La madre Carmen, la fidanzata Valeria, i parenti e gli amici sono rimasti a casa, per non rischiare di incorrere anche loro nelle ire peraltro blande di una legge confusa e insufficiente.

Una volta in Svizzera Fabo era stato visitato una prima volta dai medici che, seguendo una lugubre liturgia, devono dapprima esaminare la documentazione clinica, poi parlare con l'aspirante suicida e cercare di capire quanto forte sia la volontà di togliersi di mezzo. E quella di tanti non lo è abbastanza, se è vero che, come dice Cappato, più di uno si accontenta di capire che il salto nel baratro è un'opzione possibile, e una volta stabilito questo se ne allontana rasserenato tornando a casa da vivo. Ma la volontà di Fabo era forte e chiara e, dopo un giorno concesso per ripensamenti che non lo hanno nemmeno sfiorato, ieri quel morso l'ha dato, dopo aver temuto che, non vedendoci, mancasse il pulsante e dopo averci anche scherzato su, per farsi l'ultima risata.

L'uomo magro e tatuato che a torso nudo mixava di brutto era finito in quella che lui chiamava «la mia gabbia» il 13 giugno 2014, in un incidente stradale terribile, uno schianto mentre tornava a casa dopo una serata in un locale dell'hinterland milanese. Inizialmente aveva lottato ma quel giovane uomo che amava definirsi ribelle e che aveva avuto già tante vite, da broker da geometra, da assicuratore, da motociclista, non sentiva di essere fatto per vivere senza luce e attaccato a un corpo inerte, al guinzaglio di un tubo infilato in gola che lo faceva respirare. E ha smesso presto di combattere. Decidendo che la sua libertà sarebbe stata la morte, in un posto lontano dal suo Paese o magari anche ucciso da un amico disposto a tirargli un colpo di pistola in testa. Ma non ce n'è stato bisogno. «Sono finalmente arrivato in Svizzera - scriveva domenica su twitter - e ci sono arrivato purtroppo con le mie forze e non con l'aiuto dello Stato».

Quello Stato che si è impantanato in una inerzia che è comunque peggiore di qualsiasi legge dovesse essere fatta per regolamentare quel mistero nel mistero che è la fine vita.

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