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L'addio a tappe di Napolitano: i 50 giorni che cambiano l'Italia

Dopo il 13 gennaio Re Giorgio è pronto a lasciare. Ma le sue dimissioni si intrecciano inevitabilmente con il percorso in Parlamento di legge elettorale e riforme istituzionali

L'addio a tappe di Napolitano: i 50 giorni che cambiano l'Italia

C' è una data, il 14 gennaio: siccome il giorno prima, martedì 13, Matteo Renzi parlerà a Strasburgo chiudendo ufficialmente il semestre italiano di presidenza della Ue, il giorno dopo, mercoledì 14, il capo dello Stato potrebbe lasciare. Ma ce n'è anche un'altra, il 21 gennaio: siccome prima di andarsene Giorgio Napolitano vuole inaugurare la mostra degli arazzi cinquecenteschi del Quirinale, tessuti sui cartoni di Pontormo e del Bronzino, la firma del decreto di dimissioni potrebbe slittare.

Comunque sia, il mandato è agli sgoccioli. A dire il vero il lungo addio di Re Giorgio II era cominciato subito, un paio d'anni fa, al momento della rielezione. «Resterò finché la situazione lo richiede e le mie forze lo consentiranno». Poi nelle ultime settimane ha accelerato, moltiplicando le cerimonie di commiato. Il 22 novembre è andato dal Papa, la settimana scorsa ha incontrato il presidente tedesco Gauck, martedì si è congedato dalla nomenklatura blindando il governo Renzi e benedicendo le riforme e il Patto del Nazareno. Oggi riceverà gli ambasciatori del corpo diplomatico, nei prossimi giorni scriverà un messaggio alle forze armate e a Capodanno saluterà gli italiani in diretta tv.

Un abbandono a tappe, graduale. Napolitano vuole lasciare il Colle senza traumi e senza strappi, cercando di garantire «continuità nel cambiamento» e stabilità istituzionale. Non sarà facile: dopo il discorso di martedì, i cinquanta giorni che possono cambiare la geografia politica del Belpaese sono già cominciati. Il 7 gennaio infatti la legge elettorale arriverà al Senato e, al netto delle polemiche e delle battaglie, il premier spera di chiudere l'Italicum entro la fine del mese, cioè subito prima dell'inizio delle procedure per la nomina del nuovo presidente della Repubblica.

La corsa vera dunque ancora non è partita ma già si contano decine di candidati bruciati. L'ultimo in ordine di tempo è Romano Prodi, convocato l'altro giorno a Palazzo Chigi, usato da Matteo Renzi per mettere pressione sul Cavaliere e così subito depotenziato. Il Professore, scottato dalla carica dei 101, è stato costretto a dirsi «non disponibile» ad altre imboscate: però spera ancora, non si sa mai, in caso di stallo...

Al Quirinale, per gli auguri di Natale, Prodi non c'era. C'erano invece tutti gli altri papabili ad ascoltare Napolitano che spazzava dal tavolo l'ipotesi delle elezioni anticipate. Walter Veltroni, partito bene ma poi pesantemente impiombato dopo l'arresto di Luca Odevaine nell'ambito di Mafia Capitale, era seduto a metà sala. E nelle prime file, accanto agli altri giudici costituzionale, ecco Giuliano Amato, sovraesposto da Silvio Berlusconi.

E c'erano i ministri. Pier Carlo Padoan, elogiato dal capo dello Stato e quindi pure lui scottato e ripassato in padella dal Fatto . Roberta Pinotti, perfetta in teoria in quanto donna e renziana, ma in pratica ustionata dalla gestione del caso marò. E Paolo Gentiloni: tutti a dire che per il Colle bisognerebbe seguire il metodo che lo ha portato alla Farnesina, che ci vorrebbe un altro Gentiloni. Un altro appunto, non Gentiloni. Ancora, Massimo D'Alema e Gianfranco Fini, vicini vicini, entrambi senza speranza. E Pier Ferdinando Casini, che sarebbe il candidato perfetto se avesse qualcuno che lo vota.

Solo cardinali, per ora nessun Papa.

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