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L'affondo di Berlusconi: i parlamentari di Grillo non hanno mai lavorato

Al Salone del mobile il leader azzurro rinnova le critiche a M5s: "Parlano di decrescita felice"

L'affondo di Berlusconi: i parlamentari di Grillo non hanno mai lavorato

nostro inviato a Rho (Milano)

Atterra con l'elicottero. Come se al posto dei padiglioni della Fiera ci fosse il verde di Milanello. Cinque minuti cinque e c'è già una discreta folla ad inseguirlo. Una signora sulla trentina lo abborda gridandogli: «Silvio, Silvio». Lui si blocca e le stringe la mano. Lei sorride e resta lì, come volesse aggiungere qualcosa. «Vuole che mi spogli?», la anticipa il Cavaliere, dalla battuta sempre pronta.

Qualcuno gli batte le mani, ma la visita al Salone del mobile, fra americani, tedeschi e cinesi imbufaliti per gli scioperi che hanno paralizzato i trasporti, serve a tastare il polso della parte più dinamica del Paese, quella che ha trasformato il made in Italy in un'icona globale. L'ex presidente del Consiglio gira fra i padiglioni e sparge ottimismo: «Gli imprenditori del Salone hanno nelle loro mani un prodotto che può essere venduto perché apprezzato in tutto il mondo. Io dico che il fatturato estero deve superare quello interno». Ad ascoltarlo ci sono, fra gli altri, il presidente del Salone Claudio Luti, il numero uno di Federlegno Emanuele Orsini e Roberto Snaidero, uno dei big del settore. Potrebbe cavarsela con un peana, l'ex premier, e invece vira deciso verso i temi incandescenti della politica: «Immaginare il futuro è una responsabilità di tutti gli italiani, in una dimensione di sviluppo o in una dimensione di decrescita che qualcuno ha anche il coraggio di chiamare felice». Ogni riferimento a Beppe Grillo è puramente voluto.

Si siede in un salottino, il leader di Forza Italia, e va all'attacco: «Oltre il 70 per cento dei parlamentari di Grillo non ha mai fatto una dichiarazione dei redditi in vita sua. Non hanno mai fatto nulla di buono per sé o per gli altri».

I grillini sono il suo grande cruccio, per il resto Berlusconi distilla il suo pensiero a monosillabi, almeno con i giornalisti che fendono la folla, colorata come un poster di Oliviero Toscani. Solo sul maggioritario spende qualche parola in più, per seppellire l'impianto della Seconda repubblica: «Con un sistema tripolare il maggioritario porterebbe al governo del Paese una minoranza che avrebbe il potere, visto che i tre poli si equivalgono, con il 30 per cento che in realtà sarebbe il 15, il 16, il 17 per cento dei voti degli italiani e contro il restante 85 per cento. Credo che sia un risultato che non si può chiamare democrazia».

Un tifoso gli grida: «Non venda Donnarumma». Lui ne approfitta per dire che siamo a un passo dal Milan made in China: «È tutto come prima». Il closing è confermato «per il 13 o 14 aprile».

Battute. Urla dei supporter. Selfie a grappolo. È un Cavaliere quasi postopolitico quello che sfila sulla promenade e s'infila in un altro padiglione per osservare l'ennesima installazione. Il 2011 con tutto quello che è successo, dalla crisi dello spread alle dimissioni, appare lontanissimo. Spariti gli agguati, i nemici, i contestatori, giovani e meno giovani mostrano trionfanti agli amici la foto che li ritrae con un pezzo di storia tricolore. Da qualche parte, nella cittadella del design, c'è anche Michele Emiliano, che vorrebbe scalare il Pd. Ma i loro percorsi sono paralleli, nessun incrocio. La lunga passeggiata prosegue fra scene d'affetto e claque volanti, in stile anni Novanta. Gli chiedono lumi sui destini del centrodestra. Lui svicola: «Senza una legge elettorale ogni discorso è vano». Poi va a pranzo con i suoi interlocutori, ma prima ripete come un mantra l'abc del suo programma: «Si devono ridurre le tasse su famiglie, imprese, lavoro».

Ricette antiche, mai così attuali.

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