Rosso Malpelo

L'altro me stesso portato via dal Ghetto

Settantadue anni (e un giorno) fa, alle cinque e mezza del mattino cominciò a Roma la razzia dei romani ebrei

L'altro me stesso portato via dal Ghetto

Settantadue anni (e un giorno) fa, alle cinque e mezza del mattino cominciò a Roma la razzia dei romani ebrei. Benché io avessi soltanto tre anni conservo terribili ricordi delle urla delle madri e dei duecento bambini della mia età. Era il 16 ottobre 1943. Col passare del tempo mi capita sempre più spesso di pensare a quelli che oggi sarebbero come me se non fossero nati con un cognome imperdonabile. Abitavo con la mia famiglia vicino a via Arenula, il confine del Ghetto. Quel giorno la strada era occupata da decine di camion tedeschi con i motori accesi, ordinati e impassibili come le Ss del colonnello Herbert Kappler in attesa del carico umano.

Due giorni dopo, alle 14.05 del 18 ottobre, dalla stazione Tiburtina partirono diciotto vagoni piombati con 1.024 romani ebrei. Di loro tornarono una sola donna, Settimia Spizzichino, e quindici uomini. Nessun bambino. Con uno dei piccoli scomparsi mia madre mi portava spesso a giocare a villa Caffarelli sul Campidoglio: era un altro me stesso, di colpo svanito tra i fumi di Auschwitz dopo spaventi che non voglio immaginare. Sette mesi e mezzo dopo la razzia, via Arenula era piena di carri armati americani Sherman parcheggiati sullo stesso asfalto che era stato prima occupato dai camion delle Ss. Dopo pochi giorni la gente si esercitava nella nuova danza, il boogie-woogie, e la ballava sullo stesso selciato dei camion e dei carri.

Cominciava l'oblio.

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