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L'amara resistenza di Theresa che votò per restare in Europa

La premier tiene nell'ora più dura del mandato. Nel 2016 fu per il «Remain». Ora dice: difenderò la scelta degli inglesi

L'amara resistenza di Theresa che votò per restare in Europa

«La leadership è prendere le decisioni giuste, non quelle facili», dice nel giorno più drammatico della sua carriera politica, mentre si gioca tutto e rischia di perdere tutto: la battaglia per la Brexit, la guida del partito, la premiership arrivata all'improvviso nel luglio 2016, dopo vent'anni passati in Parlamento, sei nel governo di David Cameron. Se la resilienza, la capacità di resistere alle avversità, è una dote imprescindibile per un leader, da quando si è insediata a Downing Street, alla vigilia dei suoi 60 anni, Theresa May ne ha mostrata oltre ogni limite. Resistere, resistere, resistere è il suo mantra. «Andrò fino in fondo. Decisioni scomode sono state prese, capisco ci sia chi non è soddisfatto del compromesso ma è nell'interesse della nazione e lo possiamo garantire solo se restiamo uniti», ha detto al termine di una giornata estenuante, in cui ha perso pezzi del governo e il partito ha aperto una sfida sulla sua leadership.

Sopravvissuta dopo lo choc del referendum a una guerra fratricida tra i big del partito Conservatore, che ha lasciato a terra tutti i suoi rivali ed eretto lei al ruolo più difficile, quello di premier e Lady Brexit, Theresa May si è caricata sulle spalle il peso di una decisione epocale per i destini del Regno Unito. E lo ha fatto nonostante al referendum del 23 giugno 2016 lei abbia votato a favore della permanenza nella Ue.

Assediata dal suo stesso partito, sbeffeggiata quotidianamente dai falchi della hard Brexit, assillata dall'incubo di essere spodestata dal leader laburista più rosso del dopoguerra, più volte emarginata e umiliata dai vertici europei, la premier prosegue indefessa da due anni e mezzo nella battaglia di resistenza per un principio banale quanto fondamentale: difendere il voto degli inglesi. «Il Paese ha votato per lasciare l'Unione Europea e io tratterò le condizioni migliori per l'addio. Forgerò un nuovo ruolo per il Regno Unito nel mondo». Un'impresa titanica, alla prova dei fatti. Tanto che nel frattempo Lady May si è guadagnata il nomignolo di Lady Maybe, derisa per le sue incertezze, ridicolizzata per aver sbagliato una mossa cruciale, di cui paga ancora il prezzo: aver chiamato il Paese a elezioni anticipate e aver perso la maggioranza in Parlamento. Theresa si è trovata così regina del primo governo di minoranza dal 1974. Capopopolo di un popolo lacerato, primo ministro di un Regno Unito più disunito che mai, leader di un Paese rinomato per la sua stabilità politica e diventato dopo il referendum un ring che sta regalando all'Europa uno spettacolo imbarazzante e un'immagine decadente. Eppure lei insiste: «Credo con ogni fibra del mio essere che il percorso tracciato è quello giusto».

Nel frattempo, dal referendum, ha dovuto gestire il crollo del Regno Unito da economia con la crescita più forte del G7 a quella peggiore. Lady Brexit è diventata Lady Austerity. Eppure, con il suo governo, la disoccupazione è al punto più basso dal 1975 e i salari crescono al ritmo più veloce degli ultimi dieci anni. La premier ha annunciato che l'austerità è finita e promesso che la spesa pubblica tornerà a salire.

Sminuita dall'ingombrante paragone con Margaret Thatcher, come la Lady di ferro rischia di perdere la sfida decisiva sull'Europa. Eppure Bruxelles non poteva trovare in lei traghettatrice migliore, aperta al compromesso, a tratti deferente ma ostinata nel portare a termine la sua missione. Semmai dovesse scivolare sul dossier più scottante del secolo, probabilmente non sarà perché non è riuscita a portare a compimento le promesse di chi avrebbe voluto un'uscita più netta dall'Unione europea, ma forse perché quelle promesse sono davvero irrealizzabili. L'Unione europea sa che la Brexit è un caso di scuola che deve essere un monito per tutti gli altri Paesi solleticati dal desiderio di abbandonare la nave.

Solo le prossime settimane diranno se la Gran Bretagna approderà a un porto sicuro o si schianterà come il Titanic.

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