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L'America rivoluzionata in soli sette giorni. Da noi impossibile pure annunciare le scelte

Il Parlamento è paralizzato da se stesso, gli assurdi divieti dell'Ue fanno il resto

L'America rivoluzionata in soli sette giorni. Da noi impossibile pure annunciare le scelte

Anche i più sdegnati anti-trumpisti che provano nausea solo a sentire il nome del 45esimo presidente degli Stati Uniti, sono costretti al confronto: in una settimana Donald Trump ha lanciato almeno dieci guerre vittoriose, a cominciare dal castigo per chi sottrae lavoro agli americani fabbricando auto all'estero da venderle in America. Da noi si potrebbe? No. Nessuno ha il fegato di affrontare i «delocalizzati» caricando le loro schiene di tasse perché il Parlamento, cioè i partiti, cioè i capi dei partiti, se ne infischiano o ne gioiscono.

Dire che «da oggi i cittadini dei seguenti Paesi non hanno accesso alle nostre frontiere» è non soltanto proibito ma deriso: la parola d'ordine, sostenuta anche dal Papa, è: entri chiunque e si disperda a suo diletto sul territorio della Repubblica. I primi cento giorni? Donald Trump va misurato sulle prime cento ore: Costituzione alla mano, firma i suoi executive orders e restrictive orders con cui dire ciao alla retorica ambientalista, ciao al sistema sanitario burocratico (mentre si studia quello nuovo) ciao all'aborto fino al nono mese di gravidanza, addio ai trattati commerciali capestro, addio alla carenza cronica delle forze dell'ordine, perché il sovrano della Casa Bianca che poi renderà conto alle maggioranze di Congresso e Senato ordina l'immediata assunzione del personale con cui individuare i clandestini e reprimere i reati.

È ovvio che tutto ciò da noi è impensabile non soltanto perché tutto deve passare attraverso un Parlamento paralizzato dalla propria improduttiva compattezza, ma perché ce lo vieta l'Europa che assorbe come una spugna quote crescenti della nostra sovranità ripagandole con altri veti, misurazioni demenziali, diktat ideologici e il divieto di soluzioni autonome audaci, temerarie, all'occorrenza scandalose.

Il Regno Unito, che non ha ancora nemmeno iniziato il percorso burocratico della Brexit, è già tornato in sintonia con i versi del suo inno che non lustra l'elmo di Scipio, ma rivendica il diritto al comando sul proprio destino: «Britannia rules the waves, Britons never will be slaves», l'Inghilterra comanda sui marosi e i suoi cittadini non saranno mai schiavi. L'Inghilterra, democratica e parlamentare, è tornata nelle sue acque e trova oltre l'Oceano il partner che la festeggia e la garantisce.

Ma a noi, chi ci garantisce? Nessuno. Nemmeno da noi stessi. Dopo 13 anni nel Parlamento della Repubblica ho visto (come tutti) che quell'ornata struttura è soltanto un costoso videogioco al quale partecipano cinque, al massimo dieci persone in contrasto fra loro e che non esiste alcun potere di guida istituzionale e costituzionale. Il nostro sistema politico, esausto per le sue stesse riforme fallite, non è in grado di garantire alcuna decisione e neppure di annunciarle, come ben sa Matteo Renzi che si è andato a schiantare a duecento all'ora contro se stesso.

Da noi nulla è possibile, tutto appare ancora più retorico e fatuo dopo lo sconfortante confronto con il pragmatismo di un presidente con anzianità di sette giorni e con l'orgoglio di un primo ministro inglese donna, con un fiammeggiante vestito rosso.

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