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L'anno orribile di Istanbul: capitale del terrore

Stragi e golpe l'hanno trasformata in una polveriera. Per colpa delle scelte di Erdogan

L'anno orribile di Istanbul: capitale del terrore

Solo un anno fa Istanbul era una capitale del turismo, uno scalo obbligato per comitive attratte dal fascino di un Oriente ad un passo da casa. Oggi è un simbolo del terrore, una Bagdad alle porte dell'Europa. Per capirlo basta seguire la colata di sangue che collega la strage di Capodanno ai sei attentati susseguitesi dal fatidico 12 gennaio 2016 quando un attentatore suicida si fa esplodere tra i turisti uccidendo 12 e ferendone 14. Tre mesi dopo, il 19 marzo, un altro kamikaze colpisce Istikal Avenue, la via dello shopping e dei consolati. Ed il 7 giugno un autobomba fa strage di poliziotti al Grande Bazaar. La vera carneficina arriva tre settimane dopo quando un commando suicida massacra 45 persone e ne ferisce 200 all'entrata dell'aeroporto d'Istanbul. Una strage seguita, il 6 ottobre, dai dieci feriti dall'esplosione di una moto-bomba e il 10 dicembre dalla mattanza di 46 persone. Ma la voragine dell'orrore apertasi nel cuore d'Istanbul minaccia di divorare anche presidente Recep Tayyp Erdogan.

Per capire quanto siano legati i destini della città e del presidente basta ricordare i cinquemila jihadisti europei transitati dall'aeroporto di Istanbul tra il 2012 e la fine del 2015 e diretti in Siria. Dietro quella transumanza del terrore c'è l'inconfessabile alleanza tra i servizi segreti turchi e quei gruppi jihadisti, Stato Islamico compreso, su cui Erdogan puntava per restituire al paese il ruolo di grande potenza mediorientale. Ma dietro al neo-ottomanesimo e ai sogni dell'aspirante Sultano si cela anche l'orrore di questi giorni. I servizi segreti ripuliti dopo il 2009 dalla vecchia guardia kemalista e infarciti, su ordine di Erdogan, di zeloti musulmani sono gli stessi che, dopo aver flirtato con il Califfato, non riescono oggi a tenere a bada né i propri settori deviati, né le cellule dell'Isis incistatesi nei segmenti più integralisti della popolazione musulmana. Il risultato sono gli attentati a raffica che spazzano Istanbul e il resto del paese mentre le forze di sicurezza appaiono impotenti o addirittura, come nel caso dell'omicidio dell'ambasciatore russo, coinvolte o compiacenti. Ma l'ambiguo rapporto con l'Isis è solo una delle tante maldestre scelte di un Erdogan che nel 2015 imbocca la strada della guerra a tutto campo contro i curdi e si ritrova ora a combatterli sia in Siria, sia in quel sud della Turchia dove il Pkk può contare sul sostegno di una «minoranza» di circa 13 milioni di anime. E sempre sul fronte interno è difficile ignorare le lacerazioni create dalla spietata campagna repressiva lanciata dopo il fallito golpe e costata la libertà a decine di migliaia di esponenti dell'opposizione. Una campagna che ha finito con lo scavare un solco definitivo non solo tra Ankara e l'Europa, ma anche tra la Turchia e la Nato. Dopo l'arresto di quaranta dei cinquanta ufficiali turchi in servizio presso il quartier generale di Bruxelles l'Alleanza sta seriamente pensando di rivedere i rapporti con un Erdogan ormai fuori controllo. E anche su questo fronte la risposta di un Sultano sempre più isolato è quanto mai auto-distruttiva. Emarginato dall'Occidente e dall'Europa è finito nelle braccia di quel Vladimir Putin che nel novembre del 2015 s'illudeva di sfidare. Oggi nel nome della «pax siriana» impostagli da Mosca sta, invece, abbandonando al loro destino le decine di migliaia di jihadisti siriani ospitati, armati e finanziati per oltre 5 anni.

Jihadisti pronti ora a fargliela pagare aggregandosi alla legione di terroristi che sta trasformando Istanbul nel nuovo inferno alle porte d'Europa.

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