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L'Armada di Trump in Corea obbliga la Cina a collaborare

La Casa Bianca avvisa Pyongyang: arriviamo in forze Pechino a Kim: niente test nucleari, ora rischi troppo

Da ABS-CBN News
Da ABS-CBN News

La chiara volontà di Donald Trump di affrontare con decisione la crisi nordcoreana in tempi rapidi costringe la Cina a muovere i propri pezzi su una scacchiera che si sta facendo rovente. Così, mentre Trump ammonisce il dittatore di Pyongyang definendo «un'Armada molto potente» il convoglio di navi da guerra in arrivo in queste ore nel mare della Corea, il presidente cinese Xi Jinping prende il telefono e chiama il collega americano per cercare, nei limite del possibile, un'intesa sul da farsi.

Nel loro primo colloquio dopo l'incontro della scorsa settimana nella residenza di Trump in Florida, Xi ha spiegato al leader Usa che il suo Paese vuole una soluzione pacifica della crisi. Obiettivo dichiarato di Pechino è convincere Kim Jong-un a rinunciare al suo programma nucleare attraverso il ripristino dei «colloqui a sei», che prevedono la partecipazione delle due Coree e di Stati Uniti, Cina, Russia e Giappone. Un obiettivo che pare destinato al fallimento per una ragione molto semplice: Kim sa benissimo - e lo ha ribadito in questi giorni dopo l'attacco lanciato da Trump in Siria - che il suo arsenale atomico è l'unica garanzia di cui dispone per restare al potere (e probabilmente anche in vita). Nonostante questa evidenza, Trump ha definito «molto buona» la sua conversazione con Xi.

Al tempo stesso, Pechino ha rivolto al regime nordcoreano un avvertimento che sembra più un amichevole anche se pressante consiglio che un monito. State attenti - si legge sul quotidiano Global Times, molto vicino al governo - a non commettere l'errore di eseguire test nucleari in vista dell'imminente anniversario della nascita di Kim Il-sung: «Se lo farete, la possibilità di un'azione militare americana sarà più alta che mai». E questo perché «non solo Washington - si legge nell'articolo - trabocca di fiducia e arroganza dopo l'attacco missilistico alla Siria, ma Trump vuole anche essere visto come un uomo che onora le proprie promesse. Non è dunque il momento di compiere un'azione che sarebbe interpretata come uno schiaffo in faccia al presidente americano».

Pechino ha intanto smentito la notizia dell'invio nella regione di frontiera con la Corea del Nord di 150mila militari, che avrebbero la funzione di impedire una fuga di massa di nordcoreani verso il territorio cinese. L'origine di questa informazione - che vista l'attuale situazione avrebbe una sua logica - sembra essere l'agenzia di stampa sudcoreana Yonhap, ma l'origine dell'informazione si troverebbe in un articolo - poi scomparso dal web - dal già citato Global Times. Vero o falso che sia il contenuto, vi si sarebbe parlato dell'invio lungo il fiume Yalu, che fa da confine tra i due Paesi, di 150mila soldati integrati da un numeroso contingente medico.

Un'altra informazione piuttosto preoccupante riguarda l'Australia. Un diplomatico americano a Canberra ha dichiarato che in base a informazioni dei servizi Usa «entro due anni la Corea del Nord sarebbe in grado di colpire anche l'Australia con i propri missili».

«È chiaro - ha detto l'incaricato di affari degli Stati Uniti James Carouso dopo che il premier australiano Malcolm Turnbull aveva espresso analoghe preoccupazioni - che la Corea del Nord è un problema» e che i Paesi della regione hanno motivo di essere allarmati da un regime con una guida nella quale «è difficile vedere qualsiasi approccio razionale, a parte la vera paranoia».

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