Cronache

L'assassino di Calabresi torna in tribunale: ha picchiato il vicino

Graziato per motivi di salute, Bompressi finisce alla sbarra: rissa davanti alla figlia dell'uomo

L'assassino di Calabresi torna in tribunale: ha picchiato il vicino

Le uniche parole pronunciate risalendo sulla «125» guidata da Leonardo Marino furono: «Che schifo». Ovidio Bompressi aveva appena assassinato con due colpi di pistola il commissario Luigi Calabresi. Era il 17 maggio 1972 e a Milano, in via Cherubini, danzavano per la prima volta i demoni del terrorismo. Ma non solo. Quel terribile episodio si sarebbe dilatato trasformandosi col tempo in un tormentone giudiziario che ci ha accompagnato per decenni: le confessioni di Marino, il pentito di Lotta continua, gli arresti nel 1988 di Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri, i mandanti, e di Bompressi, il killer allampanato.

Poi i processi infiniti, le dispute, le prese di posizione corali, i saggi degli storici e una pubblicistica sterminata, le polemiche gridate e le delegittimazioni dell'inchiesta altrettanto feroci. Perché, si sa, l'Italia, l'Italia che conta, ha il cuore a sinistra e accetta solo schematismi manichei: tutto il bene di qua, il male di là, fuori dal sacro perimetro dell'antifascismo.

Sembrava che ci fossimo finalmente liberati di quella vicenda, diventata storia senza mai smettere di essere cronaca, invece la realtà si mostra ancora una volta insuperabile. Così il passato, con i suoi fantasmi, torna ad agitare il presente. È la Nazione a raccontarci che Bompressi è di nuovo dove non dovrebbe: a processo. Sembra incredibile ma è così, anche se la trama non ha nulla a che vedere con quella stagione lontana ma mai archiviata. No, molto più modestamente Bompressi, che ha appena tagliato il traguardo dei settant'anni, deve difendersi dall'accusa di lesioni. Poca cosa di per sé, ma troppo in coda al suo curriculum.

Nel 2014, nel corso di una rissa con il vicino di casa, in quel di Massa, dove abita da una vita, avrebbe sferrato un pugno al naso dello sfortunato signore, spedendolo in ospedale con una prognosi di 20 giorni. Ma disseppellendo così l'album di quegli anni tragici. A peggiorare la situazione un dettaglio non proprio edificante: l'esplosione di Bompressi sarebbe avvenuta davanti alla figlia minorenne dell'uomo.

C'è da stropicciarsi gli occhi, perché le ultime foto di Bompressi, prima che uscisse dai radar, erano quelle di un signore provato, anzi stremato dalle deposizioni e dai verbali di Marino, da molti ritenuti velenosi come calunnie. L'ex militante di Lotta continua si aggirava come uno spettro fra aule di tribunale e flash dei fotografi, scheletrico su una sedia a rotelle troppo grande per quel corpo consumato e assottigliato.

Quelle immagini e le poesie tormentate di quello che una volta era il compagno «Enrico» sembravano indicare una sofferenza inenarrabile, un supplemento quasi di persecuzione dopo quella dei giudici. Alla fine Bompressi era stato condannato in via definitiva a 22 anni, ma poi nel 2006 era arrivata la grazia, con una di quelle soluzioni all'italiana che annegano la giustizia nella retorica e nel buonismo, sempre però orientato. Perché se i delitti arrivano dall'altra parte, allora ogni cedimento, ogni manifestazione di pietas viene letto come un cedimento a poteri oscuri e torbidi, al fascismo e a tutto l'armamentario possibile di luoghi comuni.

Ora non ci saranno lenzuolate e cortei. C'è solo un velo di imbarazzo e la voglia di correre verso il patteggiamento, che nell'Italia dei bizantinismi e dei cavilli non è un'ammissione di colpevolezza ma solo un accordo sulla pena, e la chiusura rapida del fuoriprogramma.

Per poter ricollocare in fretta la lapide sul passato e su quel capitolo colmo di dolore, di equivoci e di tabù.

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