Cronache

L'assassino di Lidia "salvato" dal Gip che ha distrutto le prove

I reperti del Dna che, dopo 30 anni, avrebbero potuto incastrare definitivamente il killer "mandati al macero" dal giudice inquirente

L'assassino di Lidia "salvato" dal Gip che ha distrutto le prove

È la «prova regina», quella che inchioda l'assassino oltre ogni ragionevole dubbio. Di reperti di Dna raccolti sul luogo del delitto ormai si dibatte pure al bar. Purtroppo però nel caso di Lidia Macchi le tracce genetiche non ci sono. Il motivo? Sono state distrutte per motivi di spazio.Ha dell'incredibile il destino della prova più importante nell'omicidio della studentessa di Varese. Potrebbe essere confrontata con il Dna di Stefano Binda, il presunto colpevole arrestato venerdì per un fatto avvenuto 29 anni fa, il 5 gennaio 1987. Sarebbe decisiva per scagionare l'indagato se innocente o per condannarlo se colpevole. Ma il cold case del boschetto di Cittiglio non potrà essere chiuso seguendo questa strada. Agli atti dell'inchiesta c'erano due fondamentali reperti: 13 vetrini con il liquido seminale dell'assassino trovato sul cadavere e i vestiti macchiati di sangue di Lidia. Nell'ottobre 2000 però il gip di Varese li ha mandati al macero. «Una decisione irrituale oltre che gravissima - attacca Daniele Pizzi, legale della famiglia Macchi -. E senza fondamento giuridico: a procedimento aperto il codice non lo consente. L'ordinanza del gip Ottavio D'Agostino non venne motivata, ma quando ne chiesi conto mi venne risposto che l'ufficio corpi di reato del Tribunale era saturo. Ci si può immaginare quanto spazio occupava una scatola con 13 vetrini...». Un danno irrimediabile. Ma non è l'unico. Che fine ha fatto la borsetta di Lidia, che venne ritrovata accanto al suo corpo? Persa. Nel gennaio 2014 i familiari e il sostituto pg di Milano Carmen Manfredda, che aveva avocato l'indagine l'anno prima, ne prendono atto increduli. Il presidente del Tribunale di Varese Vito Piglionica li informa che «le approfondite ricerche presso l'ufficio corpi di reato hanno purtroppo dato esito negativo». Sempre l'avvocato Pizzi aveva notato nelle foto della scena del crimine l'oggetto, che per 28 anni non era mai stato analizzato. Poi c'è il sedile macchiato di sangue della Panda della vittima. Era stato sequestrato, ma agli atti non risulta né la sua presenza né la sua distruzione. «Si aggiunge un altro fatto inspiegabile - continua Pizzi -. Perché prima del 2000 i reperti non sono stati riesaminati con le tecniche scientifiche che in quegli anni si affermavano?». Le ricerche del legale hanno scovato al laboratorio di medicina legale di Pavia ritagli degli abiti e del sedile. Con macchie di sangue che sono l'unico materiale genetico rimasto. Sono però state analizzate nel 2015 e la sola traccia di Dna maschile isolata sul bavero della giacca contiene un profilo parziale. Utile semmai a escludere un sospettato. È successo con Giuseppe Piccolomo, il «killer delle mani mozzate», che per il caso Macchi si avvia all'archiviazione. Per provare a rimediare, ora l'avvocato Pizzi non esclude la riesumazione della salma. In mano la Procura ha la lettera-confessione spedita ai familiari il giorno del funerale di Lidia. Dopo 29 anni è stata attribuita a Binda, è considerata la prova chiave. Il Dna sulla busta non è del 48enne di Brebbia, che sarebbe stato così scaltro - dice l'accusa - da farla chiudere da qualcun altro. «Sono tranquillo, non c'entro nulla. Aspetto che tutto si chiarisca», ha detto al difensore Sergio Martelli.

Martedì l'interrogatorio in carcere.

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