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L'asso nella manica del «ministro burocrate» Investimenti italiani per uno stop alle partenze

I centri a Tripoli non sono più un'utopia. Resta l'incognita Haftar e i suoi legami francesi

L'asso nella manica del «ministro burocrate» Investimenti italiani per uno stop alle partenze

Se a sventolarcelo sotto gli occhi fosse Matteo Salvini gli «indignados» del Pd, le indomite «magliette rosse» e i Saviano con il resto della gauche caviar di Repubblica avrebbero facile gioco del liquidarla come una «boutade». Ma in Libia stavolta non c'è andato Salvini. C'è andato un super burocrate come il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi. Un signore con un passato da ministro per gli Affari europei nei governi Monti e Letta. Uno che persino quelli della sinistra radical chic sono costretti a definire un signore per bene. Ma soprattutto uno che, prima di fare il ministro, si è fatto per 20 anni le ossa negli uffici di Bruxelles. E per questo conosce alla perfezione le insidie nascoste tra le virgole e i punti di un trattato da riesumare. Dunque statene certi, prima di volar in Libia per definire assieme al suo omologo di Tripoli Mohamad Siala la riattivazione del Trattato d'amicizia tra Italia e Libia firmato nel 2008 da Berlusconi e Gheddafi Enzo Moavero Milanesi s'è studiato tutti gli annessi e i connessi.

La premessa è fondamentale per dire che siamo a una svolta fondamentale. Da questo momento gli «hotspot» in territorio africano - ovvero i centri dove identificare i migranti e separare quelli destinati al rimpatrio dai (pochi) meritevoli di arrivare in Europa con regolari voli di linea - non sono più un'utopia. Chi diceva «il governo di Tripoli non darà mai la sua autorizzazione» e liquidava come sparate le dichiarazioni di Salvini farà meglio a ricredersi. Se come assicura Moavero quel trattato è tornato in vita allora anche la possibilità del respingimento è ridiventata attiva. E a questo punto è difficile credere che il governo di Tripoli voglia assumersi da solo la rogna di gestire i centri e i migranti riportati sul suo territorio. Anche perché rischia di doversela vedere da solo con le milizie coinvolte nel traffico.

È chiaro che la contropartita sono i cinque miliardi di dollari d'investimenti in Libia assicurati nel trattato del 2008. Investimenti destinati, almeno nel primo periodo, a diventare aiuti a fondo perduto a Tripoli e alle altre entità disposte a collaborare. Ma quei soldi non devono neppure essere reperiti. Sono già stati previsti e corrispondono, più o meno, alla cifra oscillante tra i 4,6 e i 5 miliardi dollari che il piano di programmazione economica (Def) del governo Gentiloni destinava all'accoglienza dei migranti. Una cifra che Salvini aveva già annunciato di voler sforbiciare e può ora venire investita direttamente in Libia.

Ovviamente non siamo ingenui, tra il dire e il fare restano di mezzo il mare che separa l'Italia dalla Libia e la complessità e il caos di un territorio dove il governo di Tripoli controlla a stento il centro della Capitale. Detto questo non dovrebbe esser difficile a questo punto, ottenere da Tripoli il via libera all'ultima fase di Sophia, la missione navale europea che prevede interventi militari nelle acque e sulle coste libiche per combattere i trafficanti di uomini. Quella missione militare, impiegata fin qui solo per salvare i naufraghi e addestrate la Guardia Costiera libica, può quindi diventare una garanzia per la difesa dei centri d'internamento gestiti dall'Onu in cui ospitare i migranti strappati ai mercanti di uomini.

Certo la Libia resta un paese diviso in due e il generale Haftar e i suoi amici francesi all'Eliseo non saranno certo pronti ad agevolarci o a spianarci la strada. Ma il primo passo è fatto.

E a garantirci il via libera di Tripoli ci ha pensato, per il momento, uno zelante ministro burocrate.

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