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"Lavorare in Ramadan? Meglio prendere ferie". Il ministro nella bufera

I timori espressi per le oltre 16 ore di digiuno giornaliero nel mese sacro. Islamici indignati

"Lavorare in Ramadan? Meglio prendere ferie". Il ministro nella bufera

Chi non mangia e non beve per 16 ore di fila fatica a lavorare e rischia di distrarsi. E se fa un lavoro in cui c'è bisogno di concentrazione, come il conducente d'autobus, allora la distrazione può trasformarsi in una minaccia per la vita e la sicurezza degli altri. Detta così non sembra un'eresia, ma una verità assai banale. Anzi quasi lapalissiana. Ma se il digiuno è quello del Ramadan, il mese sacro dell'Islam, e a venir accusati di potenziale distrazione sono i musulmani il concetto diventa un'eresia. Un'eresia capace di sollevare folate di indignazione e accuse di razzismo.

Lo sta capendo la signora Inger Stojberg, il ministro per l'Integrazione della Danimarca al centro del polverone sollevato da musulmani e dai talebani laici del politicamente corretto per aver affrontato il divisivo argomento in un articolo pubblicato da un quotidiano locale. Le sue colpe? La principale è quella di far parte di un governo di centrodestra particolarmente severo nel far rispettare le regole sull'immigrazione. Nel caso specifico, invece, il principale vulnus rinfacciato alla Stojberg è l'aver proposto agli islamici impegnati in professioni potenzialmente rischiose per gli altri «di prendersi delle ferie durante il mese del Ramadan per evitare conseguenze negative per il resto della società». Non paga di sollevare un argomento così divisivo la Stojberg si chiede anche se l'usanza del Ramadan - imposta da un testo scritto nel deserto della Mecca nel settimo secolo dopo Cristo - possa trovar posto nella società di un paese del nord Europa del 21° secolo. «Mi chiedo - scrive - se un precetto religioso che impone l'osservanza di un pilastro dell'Islam di 1.400 anni fa sia compatibile con la società e il mercato del lavoro della Danimarca del 2018?».

Apriti cielo. Abir Al-kalemji, medico all'ospedale universitario di Odense accusa il ministro di voler privare i musulmani del diritto di praticare la loro religione e quindi della loro libertà di fede. E Pia Hammershøy Splittorff, solerte responsabile della comunicazione di Arriva, una società di trasporti con 3.500 dipendenti, un terzo dei quali immigrati impegnati a condurre treni ed autobus, si affretta a ricordare che «la compagnia non ha mai avuto alcun problema o incidente legato al digiuno dei conducenti». Ma le sollecite prese di posizione di musulmani e benpensanti non fanno i conti con la realtà del Paese. In questi giorni di maggio in Danimarca il sole sorge alle 4,46 e tramonta alle 21,27. I fedeli attenti a evitare acqua e cibo per tutto il giorno sono quindi costretti a un digiuno della durata di 16 ore e 41 minuti. Una vera sofferenza rispetto alle latitudini dei Paesi arabi dove la differenza tra giorno e notte non è mai tanto ampia. E allo stress del digiuno si aggiungono le ore di sonno perdute. Al momento della rottura del digiuno le famiglie si riuniscono, infatti, per lunghe cene della durata di molte ore. E almeno un'altra ora è portata via dalla preghiera e dall'indispensabile pasto che precedono l'inizio del digiuno poco prima dell'alba. Non a caso nei Paesi arabi durante il Ramadan nessun ufficio o negozio apre prima di mezzogiorno mentre la vita sociale si protrae fino a tarda notte.

Agevolazioni naturali per quei Paesi, ma di cui non godono i musulmani di Danimarca costretti a sopravvivere per un mese con cinque ore di sonno a notte e con la gola arsa dalla sete per tutta la giornata.

Quanto basta, suggerirebbe il buon senso, per invitarli a prendersi qualche giorno di riposo.

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