Politica

«Legittimo benedire le scuole» Il buonsenso finisce dal giudice

Dopo due anni si chiude una disputa assurda sulla laicità E gli sconfitti annunciano già un altro ricorso a Strasburgo

U na disputa sui confini della laicità. Ma forse sarebbe meglio dire una querelle dai colori vintage, come fossimo ancora immersi in un'atmosfera da laicismo ottocentesco. C'è voluto, addirittura, il Consiglio di Stato per dare l'ok alla benedizione pasquale che tre parroci avevano dato alle classi dell'istituto comprensivo 20 di Bologna. Un gesto che prepara alla festa cristiana più importante, un gesto che fa parte della nostra tradizione e che tocca corde profonde del nostro patrimonio culturale. Ma c'è chi la pensa diversamente e ritiene che il rito, naturalmente facoltativo e fuori dall'orario scolastico, non sia un momento di formazione ma un'invasione di campo intollerabile. Un cedimento inammissibile dello Stato: una rinuncia a difendere la neutralità dello spazio pubblico.

Così dal marzo 2015, quando i sacerdoti erano entrati per pochi minuti nelle aule, si è andati avanti a guerreggiare per due anni buoni, smarrendo il buonsenso, per stabilire dove passi la frontiera della libertà e quella della discriminazione. Questione sottile, dai tratti capziosi, vischiosa soprattutto se si parte dall'idea che ogni espressione legata al cristianesimo non sia un contributo per comprendere il senso religioso di ciascuno di noi e la nostra storia ma la contaminazione di un valore che evidentemente deve stare sottovuoto. Come un prodotto alimentare deperibile.

Da Bologna la polemica, dai tratti fortissimi, era arrivata fino alle pagine del New York Times e poi era tornata in città una prima volta. Il Tar aveva accolto il ricorso con un ragionamento molto netto: una scuola non può essere coinvolta in un rito che riguarda unicamente la sfera privata.

Ora però la sesta sezione del Consiglio di Stato ribalta il verdetto: le benedizioni non tolgono nulla alla vita scolastica «non diversamente dalle diverse attività parascolastiche che oltretutto possono essere programmate... dagli organi di autonomia delle singole scuole».

Ma non c'è solo la forma. I giudici vanno oltre e s'interrogano sui limiti della laicità che non può diventare una forma nemmeno tanto sofisticata di discriminazione; sì, perché seguendo l'impostazione degli «ultrà» si arriva a un risultato paradossale: si può organizzare sotto le finestre della classe una partita di calcio mentre dev'essere bocciata una preghiera collettiva rapidissima. «C'è da chiedersi - si legge nella sentenza - come sia possibile che un (minimo) impiego di tempo sottratto alle ordinarie attività scolastiche sia del tutto legittimo o tollerabile se rivolto a consentire la partecipazione degli studenti» ad attività culturali, sportive o ricreative, «mentre si trasformi, invece, in un non consentito dispendio di tempo se relativo ad un evento di natura religiosa, oltretutto rigorosamente al di fuori dell'orario scolastico».

E ancora, se non fosse chiaro: «Per un elementare principio di non discriminazione, non può attribuirsi alla natura religiosa di un'attività una valenza negativa tale da renderla vietata o intollerabile unicamente perché espressione di una fede religiosa». L'articolo 20 della Costituzione - chiude il cerchio il Consiglio di Stato - pone «un divieto di trattamento deteriore, sotto ogni aspetto, delle manifestazioni religiose in quanto tali». Insomma, la laicità non puo' diventare il falò di duemila anni della nostra civiltà: «Non si capisce perché - spiega al Giornale il professor Mario Esposito, ordinario di diritto costituzionale all'università del Salento - una manifestazione religiosa dovrebbe ledere la libertà di persone per di più assenti». Per Mariano Crociata, presidente della commissione episcopale per la scuola della Cei, «la sentenza è una dimostrazione di buonsenso».

Ma la partita non è finita: gli sconfitti annunciano già un ricorso alla Corte di Strasburgo.

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