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L'eterna sfida tra rottamatori e vecchia Ditta

Baffino non ha mai visto di buon occhio l'ascesa del premier, ma ha provato a cavalcarla rimanendo scottato sulle nomine Ue. Ora è battaglia sul Colle

L'eterna sfida tra rottamatori e vecchia Ditta

L'ultima della serie «Max contro Matt» la raccontavano giusto ieri i giornali. D'Alema che chiede udienza al vecchio amico Giorgio Napolitano per convincerlo a non lasciare la briglia corta al giovane premier: «Non può gestire da solo la partita del Quirinale, è pericoloso». La battaglia per il Colle sarà del resto il teatro dell'ultimo e più insidioso capitolo dell'eterno duello tra il vecchio Pd, incarnato da D'Alema, e il nuovo renziano.

Da quell'orecchio però Napolitano non ci sente. Chi conosce bene il presidente spiega che per lui, cresciuto alla politica negli anni in cui i partiti erano una cosa seria, Renzi è diventato a tutti gli effetti il legittimo leader del Pd in un momento preciso. Non quando ha stravinto le primarie, che per Napolitano restano uno scimmiottamento un po' dilettantesco del sistema Usa, ma nel momento in cui è stato eletto segretario dagli iscritti.

Quel giorno di novembre del 2013 la dura contesa tra l'outsider fiorentino e il candidato della Ditta investito da Massimo D'Alema finì in modo sorprendente: 45,3% Renzi, 39,4% Gianni Cuperlo. Il vecchio gruppo dirigente, convinto di farne un'anatra zoppa, fu preso alla sprovvista. Quel momento segnò l'apertura di credito di Napolitano e il colpo più duro per la Ditta. Quando la mattina degli scrutini D'Alema si affacciò su Rai3, ospite di Agorà, bastava guardare la sua espressione impietrita per capire il dramma che si stava consumando. Le parole contro il futuro segretario furono staffilate: «Ignorante, superficiale, mentitore». Quanto al futuro del Pd in caso di vittoria di Renzi, D'Alema prefigurava il rischio di «scontro permanente». La classica profezia che si autoavvera.

Bisogna riconoscere che D'Alema ha più di una buona ragione, dal suo punto di vista, per avere il dente avvelenato con l'astuto fiorentino. Il quale, annusata l'aria, lo ha scelto come simbolo del male costruendosi il ruolo di antagonista. Nel 2009 dichiarò guerra all'establishment post-Pci candidandosi alle primarie di Firenze e sbaragliando sia il candidato di Veltroni che quello di D'Alema. Nel 2010 inaugurò la stagione della Rottamazione, «per liberarci di un'intera generazione del mio partito», prendendo Max come bersaglio grosso. «È sufficiente che un giovanotto dica che voglia cacciarci a calci in culo, che subito gli vengono concesse paginate e interviste», reagì quello irritato, ma non ancora preoccupato. Poi l'accelerazione: nel 2012, dalla Leopolda, il grido di guerra: «Cari D'Alema, Veltroni, Bindi, in questi anni avete fatto molto per il Paese. Ma adesso anche basta». Replica: «Pensi a fare il sindaco». Renzi cita Beautiful: «Sono riusciti a rottamare persino Ridge. Noi ci proveremo con Baffino». Intanto si candida contro Bersani (il previdente D'Alema era contrarissimo alla concessione delle primarie), e cresce nei sondaggi. «Se vince lui, non c'è più il centrosinistra», avverte Max. Renzi perde. D'Alema, pur escluso dalle liste per effetto della Rottamazione, per la prima volta lo apprezza: «Da sconfitto mostra la stoffa del leader». Le elezioni 2013 finiscono male. Bersani si incarta sul «governo di cambiamento», D'Alema lo accusa di aver «sbagliato un rigore a porta vuota» e ad aprile sale a Firenze ad incontrare l'arcinemico. La sua idea, in quei mesi, è che Renzi possa essere la carta vincente del Pd in caso si precipitasse verso nuove elezioni. E lui sarebbe disposto ad incoronarlo, a patto che il partito resti in mani sicure (le sue). Quello invece si candida a segretario, e se lo prende. Poi sale anche a Palazzo Chigi. Un momento di disgelo tra i due arriva a marzo: D'Alema punta all'incarico di ministro degli Esteri Ue, Renzi glielo fa balenare. Presenta il suo libro sull'Europa, incassa apprezzamento per il suo «realistico» programma di governo e Max gli regala la maglietta del campione Totti. Poi userà D'Alema come spauracchio in sede Ue: nominate la Mogherini, sennò vi mando D'Alema. Che, giustamente, non gliela perdona. «Renzi non tiene fede alla parola data. Prima o poi bisognerà raccontare tutte le bugie che dice quello lì», si sfoga ad una cena di oppositori di Renzi convocata a settembre in casa sua. Arginare lo strapotere di «quel fascista», nella speranza che si logori al governo, è ancora la sua mission. Il voto sul Quirinale un banco di prova.

Ma la speranza di avere Napolitano come alleato si è rivelata fallace.

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