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L'ex leader: Pd svilito dalle canzoncine. I fedelissimi del premier: lui nel 2010 corteggiava Fini e Lega

RomaL'ultima, flebile speranza di Pier Luigi Bersani e della minoranza Dem si chiama Denis Verdini. E ad essa la sinistra Pd, scalzata e messa all'angolo da Matteo Renzi, si aggrappa come un gruppo di naufraghi ad un canotto. Il suo nome è diventato il mantra da ripetere per marcare la propria distanza dal leader e per indebolirne l'immagine, e pazienza se (come ricorda perfidamente Fabrizio Cicchitto) quello che oggi è un infrequentabile «uomo nero» solo ieri era l'interlocutore privilegiato dello stesso Bersani e del suo fido Migliavacca nel mondo berlusconiano, e l'ufficiale di collegamento col Cavaliere insieme al quale l'allora segretario Pd discuteva di improbabili riforme del Porcellum che alla fine, e di comune accordo, non si fecero. Per non dire di quando, solo pochi mesi fa, la minoranza Pd votò allegramente con lo stesso Verdini per mandare sotto il governo sulla riforma della Rai.

Oggi invece Verdini sta dando una mano a Renzi a tirar fuori la riforma costituzionale dal pantano del Senato, e Bersani lo condanna via Facebook con parole di fuoco: «Valori, ideali e programmi di centrosinistra si sviliscano in trasformismi, giochi di potere e canzoncine», scrive l'ex segretario del Partito democratico. «Sembra, e non da oggi, che ci sia una circolazione extracorporea rispetto al Pd e alla maggioranza». Renzi tace, ma i suoi tirano fuori un Bersani d'annata (2010) che proponeva nientemeno che a Fini e Lega un «patto repubblicano per le riforme», fine del bicameralismo inclusa. Come dire: da che pulpito.

L'intervento di Bersani è solo l'ultimo di una batteria di interviste e dichiarazioni che l'ala dura della minoranza, quella che vive con sofferenza la resa sulla riforma, sta sparando da giorni contro il quartier generale renziano: Speranza, Gotor, D'Attorre. Il problema della fronda è che opporsi alle riforme di Matteo Renzi è risultato alla fine impraticabile, perché i voti rischiavano di esserci comunque e - soprattutto - perché votare contro, insieme a Lega e grillini, sulla base di cavilli poco comprensibili sull'elettività dei futuri senatori, avrebbe comportato uno strappo dalle conseguenze incontrollabili. E poi, come sottolineò crudelmente Renzi, poteva Bersani ritrovarsi alla testa dei comitati del No al referendum, contro il proprio partito? Così alla fine, anche per le pressioni dell'ala più moderata, la minoranza ha fatto dietrofront, accettando un finto compromesso per giustificare il proprio voto. Ora si avvicina la legge di stabilità, e per quanto minaccino dure battaglie «di sinistra», anche lì sarà difficile opporsi chiedendo più tasse e meno crescita: per ora i numeri, in Senato come in economia, sono dalla parte del premier.

Ecco dunque che il mantra contro Verdini e contro «l'inquinamento» della identità Pd diventa l'ultima carta da giocare, una sorta di richiamo della foresta rivolto alla base tradizionale della sinistra, quella cresciuta a pane, manette e antiberlusconismo, per cercare di fomentarne il distacco da Renzi e proporsi come alternativa, alimentando il fantasma della trasformazione del Pd in un fantomatico partito verdiniano della Nazione. A loro si rivolge Bersani: «Tanta nostra gente pensa che sia ora di rendere più chiaro dove si stia andando, senza cortine fumogene e battute assolutorie. Anch'io la penso così».

Replica secco il vicesegretario Pd Guerini: «Rispetto per il Pd è anche non aprire ogni giorno un fronte interno alimentando tensioni inutili».

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