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La Lezzi cade sul Tap E adesso il movimento vuole le sue dimissioni

Il ministro costretto al dietrofront: "Il blocco del gasdotto costa troppo". Ira degli attivisti

La Lezzi cade sul Tap E adesso il movimento vuole le sue dimissioni

La «pasionaria grillina», così l'avevano soprannominata nel suo Salento, sbatte di fronte alla realtà. Barbara Lezzi (nel tondo), leccese e ministro per il Sud, è la vittima politica eccellente di un altro «delitto perfetto» che costringe il M5s a misurare la distanza tra le promesse e i fatti, la campagna elettorale e l'azione di governo. L'espressione da scena del crimine era stata utilizzata da Luigi Di Maio dopo la firma del nuovo accordo sull'Ilva di Taranto. Un dossier che aveva sancito la marcia indietro dei Cinque Stelle sulla chiusura dell'impianto e imposto al vicepremier e superministro la soluzione di compromesso. Con tanto di exit strategy comunicativa imperniata sull'assunto che tutto fosse colpa dei governi precedenti. La scusa è stata usata spesso e prima di tutti dal sindaco di Roma Virginia Raggi, tirata fuori come un asso nella manica di fronte a ogni difficoltà amministrativa.

La Lezzi si è appropriata della stessa tattica. «Nelle prossime 24-36 ore prenderemo una decisione - ha detto dopo il vertice di lunedì - il sentiero è molto stretto», perché lo stop al gasdotto avrebbe «un costo troppo alto che dovremmo far pagare al paese». E ancora «abbiamo le mani legate», alludendo alla posizione favorevole al Tap degli alleati di governo della Lega. La carta della disperazione è nelle mani del ministro dell'Ambiente Sergio Costa. Il dicastero farà ulteriori verifiche cartografiche alla ricerca di irregolarità tecniche. Questa sarebbe l'unica strada, quel «sentiero stretto» evocato dalla Lezzi, che consentirebbe di mandare all'aria i lavori senza passare dalla cassa delle penali per i contratti annullati.

Infatti il costo che graverebbe sullo Stato in caso di stop al cantiere, cosa che spinge il ministro Lezzi a parlare di «senso di responsabilità», è stimato in una cifra variabile tra i 15 e i 20 miliardi di euro.

Michele Emiliano, governatore Pd della Puglia, è rimasto da solo a battersi contro i mulini a vento. Ieri ha commentato così su Facebook: «La retromarcia dei 5Stelle su Ilva e Tap è l'inizio della fine del movimento, come fu il referendum anti-trivelle per il Pd - ha proseguito Emiliano - la vittoria dei Verdi in Baviera conferma che il nuovo della politica europea si costruisce sulla tutela della salute e dell'ambiente».

Il Movimento No Tap, intanto, vuole proseguire nell'opposizione al progetto e chiede le dimissioni degli eletti M5s. In una nota gli ambientalisti hanno etichettato i membri dell'esecutivo come «traditori», esprimendo «profondo dissenso e sconcerto per quanto dichiarato dagli esponenti del M5s e del governo». Mentre, in un'intervista all'Huffington Post, il consigliere regionale grillino pugliese Antonio Trevisi ha ammesso la sconfitta: «Noi M5s non ce l'abbiamo fatta a fermare la Tap, chiedo scusa».

Le scuse non basteranno per calmare gli animi di elettori e attivisti e per far dimenticare le parole di Alessandro Di Battista, che in campagna elettorale aveva detto che sarebbero bastati quindici giorni per fermare la Tap.

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