Politica

L'Ilva è salva, arriva la firma: 10mila assunti senza Jobs act

Accordo con Arcelor Mittal: piano da 4,2 miliardi Esulta Di Maio, adesso il referendum tra i lavoratori

L'Ilva è salva, arriva la firma: 10mila assunti senza Jobs act

«Oggi è l'inizio di un lungo percorso per fare dell'Ilva un'impresa più forte e più pulita». Sono queste le prime parole di Matthieu Jehl, vice presidente di Arcelor Mittal, a pochi minuti dalla firma dell'accordo che sancisce il passaggio del polo siderurgico di Taranto al colosso dell'acciaio: primo produttore al mondo con 97 milioni di tonnellate nel 2017, Arcelor conta quasi 200mila dipendenti in 60 Paesi per un fatturato di oltre 68 miliardi di dollari e un utile netto di 4,56 miliardi di dollari.

Un'intesa, arrivata dopo un faccia a faccia di quasi 20 ore, che è stata l'apice di un iter lunghissimo che - per oltre un anno - ha tenuto con il fiato sospeso i 13.522 lavoratori dell'Ilva, 20mila addetti dell'indotto e una intera città che, da tempo, attende un rilancio soprattutto dal punto di vista ambientale.

La quadra tra le parti è stata raggiunta con una proposta migliorativa che prevede l'assunzione, subito, di 10.700 dipendenti su 13.522. Il tutto, a parità di salario e di diritti, non applicando le modifiche allo statuto dei lavoratori contenute nel Jobs Act del governo di centrosinistra. L'accordo prevede, inoltre, anche che il ministero dello Sviluppo economico finanzi con 250 milioni di euro eventuali esodi incentivati che, secondo fonti sindacali, potrebbero essere alcune centinaia. Altri 2.500 dipendenti circa resteranno, per il momento, alle dipendenze della «vecchia» Ilva, e saranno impegnati in interventi di bonifica ambientale fino al 2023. Dopo quella data, «tutti quelli che non riusciranno a essere coinvolti nelle procedure di esodo e nelle altre collocazioni ha detto il ministro per lo Sviluppo economico Luigi Di Maio annunciando anche una legge speciale per il rilancio di Taranto - riceveranno una proposta di lavoro da Arcelor».

A livello finanziario, l'accordo prevede un piano industriale di 4,2 miliardi di investimenti, di cui 1,8 miliardi per l'acquisto del polo, 1,25 miliardi di interventi industriali e 1,15 miliardi di interventi ambientali. «La chiusura dell'accordo è un bel segnale per il Paese. Ed è la riprova - ha commentato il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia - che è possibile coniugare le ragioni dell'occupazione con quelle dell'ambiente e dello sviluppo nel rispetto delle prerogative dell'acquirente. Auspichiamo che possa essere l'inizio di una svolta che riporti la questione industriale al centro dell'attenzione nazionale». Una schiarita, quella nei rapporti tra gli industriali e il governo, dopo diverse polemiche che avevano portato Boccia ad appoggiare lo sciopero indetto dai sindacati per l'11 settembre, ieri poi revocato dalle parti. Soddisfazione anche dai rappresentanti dei lavoratori che ora faranno partire il referendum di fabbrica. Ogni sito industriale del gruppo deciderà la data di partenza della consultazione che si chiuderà comunque entro il 13 settembre.

Soddisfatto a metà Maurizio Landini, segretario generale della Fiom: «Continuo a pensare che sarebbe molto importante se nell'assetto societario di Mittal ci fosse una presenza pubblica - ha detto - nelle forme che il governo vuole o può decidere, perché il settore siderurgico è strategico per il nostro Paese».

Positivo, infine, il giudizio di Antonio Gozzi, il presidente di Federacciai: «Non si poteva pensare di chiudere l'Ilva e di risolvere il problema senza il consenso dei lavoratori. L'industria italiana della trasformazione del metallo può tirare un respiro di sollievo». Gozzi ha voluto ricordare i Riva (ex proprietari, ndr) affermando che probabilmente «il tempo renderà loro merito.

L'unico dispiacere - ha concluso - è che Ilva non sia più italiana».

Commenti