Cronache

L'imam entra in carcere ma per arrestare la jihad

In otto penitenziari italiani religiosi musulmani in campo per evitare che il fanatismo faccia proseliti

L'imam entra in carcere ma per arrestare la jihad

La scommessa ha una posta alta: puntare sulle religioni per evitare che il fondamentalismo islamico faccia proseliti in carcere. Forse anche per questo il ministero della Giustizia ha chiesto la collaborazione degli imam. Una sperimentazione in corso in otto carceri del Paese, quattro in Lombardia, perché è al Nord la più alta concentrazione di detenuti di religione islamica, sul totale di oltre 10.000 musulmani nelle carceri italiane. In Lombardia, a gennaio 2016, erano 3.630 i detenuti stranieri, quasi la metà del totale (46,38%): molti i musulmani.

I penitenziari milanesi di Opera e Bollate sono i luoghi pilota del progetto imam nelle carceri, realizzato in collaborazione con l'Ucoii, l'Unione delle comunità ed organizzazioni islamiche in Italia. Nato per motivi di recupero, è una sorta di alternativa spirituale alla radicalizzazione dei detenuti che avviene sempre più di frequente nelle carceri, oggi uno dei principali luoghi di adescamento e reclutamento di futuri terroristi. Centrali di proselitismo del jihad. «Sono le nostre banlieu» secondo la recente definizione del ministro della Giustizia, Andrea Orlando.

Accanto a Opera e Bollate, in Lombardia la sperimentazione è stata avviata a Cremona e a Brescia Canton Mombello. Sono coinvolte anche le carceri di Torino, Verona, Modena e Firenze. Funziona così: l'Ucoii fornisce una lista di persone interessate a prestare la propria opera di volontariato (cioè senza alcuna retribuzione) nelle carceri, in qualità di ministri del culto (Imam) e mediatori interculturali e l'Amministrazione penitenziaria effettua i controlli per le necessarie autorizzazioni all'ingresso.

Verifiche di concerto con le prefetture, per evitare la più paradossale delle situazioni, che cioè siano gli imam ammessi in carcere a rivelarsi pericolosi per la sicurezza. Nelle carceri milanesi, in passato, è capitato che abbiano fatto richiesta di entrare come imam persone alle quali non è stato concesso l'accesso perché avevano commesso reati.

«L'intesa con l'Ucoii è una collaborazione allo scopo anche di gestire i problemi di sicurezza. In questo momento, nelle carceri ci sono anche persone attenzionate perché ritenute sospette» spiega Daniela Milani, professoressa all'Università Statale di Milano, tra i docenti di un corso sul pluralismo religioso rivolto agli agenti della polizia penitenziaria milanese, realizzato dalla Curia di Milano con rappresentanti delle diverse religioni. «Su chi è in difficoltà per motivi personali o sociali, è più facile che attecchisca un'interpretazione cattiva del Corano, se non c'è una seria politica di integrazione» dice Milani.

Il corso di pluralismo religioso ha tra i docenti Hamid Roberto Distefano, del Coreis, rav David Sciunnach, ebreo, Paolo Branca della Cattolica. Distefano, italiano convertito all'Islam, sottolinea il rischio di «cattivi maestri», del «fai da te con internet» che «la scarsa integrazione va a facilitare». Un terreno su cui è più facile che attecchiscano male piante. Condivide Rav Sciunnach: «Il nostro è un seme che viene messo nella terra e non dà subito frutto, ci vuole tempo, ma siamo all'avanguardia». Come ricorda Branca: «Qualche tempo fa a Tolosa un detenuto arabo, un delinquente comune, radicalizzatosi in carcere, poi uccise bambini di una scuola ebraica. Oso sperare che se avesse incontrato rav Sciunnach e gente come noi a lavorare nel carcere, forse qualche dubbio gli sarebbe venuto...

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