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L'imbroglione omicida che ha saputo incantare i guevaristi da salotto

Non è un rivoluzionario, né un intellettuale. È solo un cinico che si crede più furbo di tutti

L'imbroglione omicida che ha saputo incantare i guevaristi da salotto

Si dice sempre che una giustizia in ritardo trova un uomo diverso da quello che, a suo tempo, avrebbe dovuto giudicare. Un quarto di secolo è un quarto di vita, spesso è un'altra vita e, se vissuta cercando di emendarsi dalle colpe del passato, invita alla clemenza. Nella vicenda di Cesare Battisti, pluriomicida in fuga dal 1981 e ora, sembra, in predicato per essere estradato nel nostro Paese, non c'è però niente di tutto questo, ma la maschera tragica di un piccolo rapinatore di provincia riciclatosi a vittima di un'idea. Guerrigliero nobile e idealista nell'Italia degli opposti estremismi, Che Guevara de noantri costretto a prendere le armi contro lo Stato fascista delle «stragi di Stato», esule politico che nell'esilio scopre una vocazione di scrittore e a essa vorrebbe consacrarsi, non fosse che quello Stato fascista si ostina nella sua caccia all'uomo e quindi nella sua persecuzione...

Questa è la favola che Battisti ha raccontato in quell'arco di tempo in cui scappava dalla condanna all'ergastolo (per quattro omicidi), ma anche da se stesso, il mediocre rapinatore che era stato, l'omicida ideologico prezzolato che era diventato, sempre e soltanto guidato dal suo istinto per la sopravvivenza e dal cinismo dozzinale di chi non mette mai in conto le vite degli altri. Gli anni Settanta, di cui di fronte al mondo beota degli intellettuali parigini si era fatto emblema e vittima sacrificale, Battisti in realtà li aveva presi per la coda, il biennio '78-79 dei Pac, i Proletari armati per il comunismo, e si erano conclusi con il suo arresto prima ancora che finissero. Poi, nel 1981, c'era stata l'evasione dal carcere e da allora quella favola era divenuta la sua ragione di vita e insieme la sua assicurazione sulla vita: negare tutto, anche l'evidenza.

Romanziere mediocre, melenso nel suo atteggiarsi a eroe stanco, tradito da tutti, ma in pace con se stesso, Battisti sapeva benissimo che nell'aver ammazzato un gioielliere e un macellaio non c'era epica, e che non c'era nessuna giustizia proletaria alle spalle nell'aver fatto fuori una guardia carceraria e un poliziotto. Era soltanto la scheggia impazzita e indottrinata frettolosamente in carcere che aveva preso il posto del piccolo malavitoso degli esordi, ma ammetterlo avrebbe significato il dover rispondere di ciò che aveva fatto e Battisti, da piccolo borghese quale in realtà era, alla sua pelle ci teneva.

Se non ci fosse la lunga striscia di sangue che si è lasciato dietro, la sua sarebbe la tragedia di un uomo ridicolo: il velleitarismo da artista, il millantato credito ideologico-rivoluzionario, uno status di «fuggitivo» zeppo di avvocati a disposizione, di intellettuali pronti a credergli (non c'è intellettuale più cretino dell'intellettuale francese quando fa di un assassino, purché abbia scritto un romanzo, un santo), la connivenza di leader politici vanesi e/o pasticcioni.

È anche per questo che, pur giungendo in ritardo, quando e se la giustizia italiana riuscirà a prenderlo in consegna, troverà esattamente la stessa persona che quasi trent'anni prima l'aveva beffata. Un imbroglione omicida, a cui il tempo trascorso non ha insegnato niente se non la perpetuazione e il raffinamento della menzogna, un delinquente a sangue freddo che non ha mai avuto il coraggio privato e pubblico di guardarsi in faccia e di guardare in faccia i parenti delle sue vittime.

Gli anni Settanta in Italia sono stati terribili per il loro impasto di violenza e di messianismo ideologico, una sorta di «guerra santa» in cui estrema destra e estrema sinistra, corpi separati dello Stato, funzionari e civil servant esemplari si sono ritrovati immersi. Proprio per questo possono essere ricordati come «il lungo inverno del nostro scontento», quando spesso sembrò fosse impossibile vedere la luce in fondo al tunnel della dissoluzione di uno Stato e di una comunità nazionale.

Proprio per questo è vergognoso che per tutto il trentennio di Battisti «en cavale», in fuga, ci sia chi si è bevuto la sua storia di martire di una causa nobile nonostante la sconfitta.

Non c'è stato mai nulla di nobile in Battisti, così come non c'è mai stata nessuna causa dietro di lui che valesse un quarto di nobiltà. C'è stato, semplicemente, un assassino che l'ha fatta a lungo franca, che non si è mai pentito, che si è sempre creduto più furbo di tutti.

Un uomo senza dignità e che non ha mai mostrato di sapere cosa fosse la pietà.

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