Cronache

L'imprenditore (con la tuta) che ha «sollevato» il mondo

"La indosso dall'età di 10 anni". Costruisce una casa in 12 giorni. Suo il ponteggio usato per Partenone, Colosseo, Eurotunnel, diga di Assuan e centrale di Chernobyl

L'imprenditore (con la tuta) che ha «sollevato» il mondo

Che cos'hanno in comune la basilica di San Pietro e la grande moschea di Abu Dhabi, la centrale nucleare di Chernobyl e quella dismessa di Montalto di Castro, il Partenone di Atene e l'Hermitage di San Pietroburgo, l'Eurotunnel sotto il Canale della Manica e la diga di Assuan sul Nilo, il campanile di San Marco e Palazzo Grassi a Venezia, la Reggia di Caserta e l'hotel Oberoi di Mumbai, la basilica superiore di Assisi e la Camera dei deputati, la Mole Antonelliana e la Singapore land tower, il Colosseo e il transatlantico Queen Mary II? Un uomo. Un operaio di Cornuda (Treviso) che indossa sempre e solo la tuta blu unta di grasso e con questa divisa dirige da solo un impero, al 100 per cento di sua proprietà, allargatosi dal Veneto fino a Dubai, alla Somalia, al Kenya, alla Romania, al Lussemburgo, alla Lituania, al Brasile, spaziando dalla meccanica all'edilizia, dalla chimica all'agroalimentare, dai veicoli industriali alla sanità. Oggi fattura 140 milioni di euro l'anno e ha 300 dipendenti, più altri 500 che lavorano per lui in imprese collegate. Ma, quando dalla canna ricavava zucchero e benzina, è arrivato a stipendiarne 1.200 nel solo Mato Grosso do Sul. E allorché nel 2009 ebbe la pessima idea di tentare il salvataggio della Vinyls, colosso del cloruro di polivinile gravato da 140 milioni di debiti, se ne caricò sulle spalle fra Porto Marghera, Ravenna, Porto Torres e Assemini altri 1.000 (quasi 7.000, considerando l'indotto), «per poi scoprire che i politici mi avevano tirato un bidone da 40 milioni di euro, che ci ho rimesso di tasca mia».

Il cavalier Sartor Fiorenzo - con il cognome rigorosamente preposto al nome - ha inventato il ponteggio autosollevante impiegato in tutto il mondo per costruire e restaurare edifici, salvare monumenti, realizzare arditi progetti d'ingegneria idraulica o navale. È un sistema di montacarichi, ascensori e piattaforme che ha mandato in soffitta travi di sostegno, tavole di legno e carriole. Nei cantieri fa salire e scendere le persone e i materiali in un battibaleno. Poteva pensarci chiunque: in fin dei conti bastavano un pignone e una cremagliera. Ci pensò per primo lui, a soli 17 anni: «Vidi aprirsi un cancello scorrevole e mi chiesi: perché non sfruttare lo stesso movimento in verticale, anziché in orizzontale?». Se oggi in Grecia il ponte sospeso più lungo al mondo, quasi 3 chilometri, attraversa il golfo di Corinto, è anche merito suo.

La morchia dell'officina si è insinuata sotto le unghie di Sartor all'età di 10 anni e dopo 60 è ormai impossibile lavarla via. S'è fermato alla quinta elementare: «Un lusso, per quei tempi». Conosce bene soltanto il dialetto: «Però in giro per il mondo mi sono sempre fatto capire, persino dagli arabi, altrimenti come sarei riuscito negli ultimi mesi ad andare a combinare affari in Gran Bretagna, Ucraina, Egitto, Marocco, pochi giorni fa persino in Camerun?». Adesso il parón della Safi di Cornuda può concedersi il lusso di alzarsi alle 6, «un tempo saltavo fuori dal letto fra le 4 e le 5». Alle 7 è già in officina, attigua all'abitazione, e ci resta fino alle 23. La moglie, Ivana Zuccolotto, non può protestare: se l'è portata via un brutto male. «Sabato e domenica sono i giorni migliori. Nessuno che rompe. Mi metto al tornio e posso concentrarmi sui nuovi progetti». L'unico figlio, Claudio, 46 anni, ha scelto un'altra strada. Vive in Brasile, a São José do Rio Preto, dove s'è risposato e fa il fotografo di moda e di nudo : «Massa grili par la testa, massa done, massa spese». Il cavaliere ha così puntato sul giudizioso nipote, Moreno, 21 anni, nato dal primo matrimonio di Claudio. Dopo la gavetta in officina, l'ha fatto diplomare perito meccanico e l'ha mandato a perfezionarsi a Edimburgo. «Senza questo ragazzo, avrei già venduto tutto». E per «tutto» intende, oltre alla Safi, una galassia che comprende la Habitat 3D System, che costruisce in 12 giorni una casa con muri in calcestruzzo dello spessore di 14 centimetri; la Videa, specializzata in verniciature industriali e in piattaforme oceaniche per le compagnie petrolifere; la Tpv, leader italiana della plastica, che produce Pvc per pannelli, cavi, tubi e dispositivi biomedicali.

E se non avesse un nipote cui lasciare tutto?

«Farei opere di bene, come desiderava mia moglie: scuole di formazione e impianti sportivi che tengano i giovani lontani dalla droga».

Non ha niente dello sportivo.

«In gioventù correvo in bici. Per comprarmene una da competizione, misi da parte le mance che mi guadagnavo il sabato e la domenica andando per famiglie a sturare water. Quando mio padre venne a sapere di queste gare, mi fece fare la strada dall'officina a casa a scarpate nel culo. Una volta dentro, giù botte. Al che mia nonna Rosa gli gridò: “Vergognati! Non sei degno di avere un figlio così”. Le rispose: “Vu ste' zita, che gavì un piè sula busa”, avete un piede nella fossa. Allora ai genitori si dava del voi».

Mammamia!

«Si chiamava Angelo, ma lo era solo di nome. Cattivo che più cattivo non si poteva. “Comande mi, e tuti gà da fare quel che digo mi”. Su 50 milioni d'italiani, 49.999.999 erano in torto. Aveva ragione uno solo: lui».

A che età ha cominciato a lavorare?

«A 10 anni, da Bernardo Zanini, detto Chechi. Casse di zinco per le bare. Nessun apprendista resisteva più di tre mesi. Ti spiegava le cose e poi ti chiedeva: “Hai capito?”. Alla quinta volta che mi ripeté ciò che dovevo fare, per vergogna risposi di sì. Non era vero e perciò sbagliai a eseguire il compito. Avvertii un dolore atroce, lanciai un urlo: mi aveva spento il toscano sul collo. “Così, quando non capisci, impari a dirmelo”, sbraitò».

Un nazista.

«Con 5.000 lire si compravano stagno, zinco e acido muriatico necessari a foderare due casse da morto, per ognuna delle quali il Chechi pretendeva 15.000 lire. Pensai: mi metto a farle per conto mio. La nonna s'indignò: “Ti xe come l'usèr de Firenze”, l'usuraio, “che quando morì gli trovarono il cuore fra i soldi”».

E dunque?

«A 17 anni, di nascosto da mio padre, cambiai datore di lavoro: Giuseppe Pieri, un impresario edile di Montebelluna. Dopo tre mesi nei cantieri, mi portò in una sua officina, dove c'erano 20 operai al lavoro, tutti anziani: “Da oggi li dirigi tu”. Io non volevo. “O così o torni a casa”, ribatté. Non me la sentivo di mollare: Chechi mi dava 100 lire a settimana, Pieri 160 lire l'ora. “Facciamo così: quelli che non si comportano bene, li mandi in ufficio da me”, concluse. In un mese dimezzammo il personale».

A stare con lo zoppo, s'impara.

«Un giorno Pieri mi fa: “Bòcia, tu che sei bravo, inventa qualcosa per i miei muratori costretti ad arrampicarsi come scimmie sulle impalcature”».

E lei escogitò il ponteggio autosollevante, all'origine delle sue fortune.

«Solo che Pieri se ne impossessò e lo brevettò in segreto. Poi me lo diede da produrre. In pratica mi aveva trasformato in un contoterzista a costi certi. Attesi 10 anni che scadesse il brevetto e apportai al macchinario una miglioria decisiva. Pieri tentò di parare il colpo andando a farselo produrre in Romania. Le risparmio i particolari. Fatto sta che fallì e così mi riportai a casa dal tribunale quello che era stato mio sin dall'inizio».

Mi hanno raccontato che il suo ponteggio fu ammirato persino da Giovanni Paolo II. È vero?

«Verissimo. Ne eressi uno in San Pietro, alto 44 metri, per il restauro degli affreschi nella cappella della Pietà. Mica facile, senza avere la possibilità di ancorarsi a qualcosa. Un giorno, mentre lavoravo, mi avvicinò monsignor Virgilio Noè, arciprete della basilica vaticana: “Cavalier Sartor, lei di che religione è?”. Dopo qualche tempo il prelato mi chiese: “Le andrebbe d'incontrare il Papa?”. Una sera alle 21 squillò il telefono: era il segretario del pontefice. “Sua Santità la aspetta a messa domattina alle 7.30”. Guardi che io sto rispondendo da Cornuda, Treviso, come faccio a essere a Roma per quell'ora? Mia moglie avrebbe voluto che ci mettessimo in viaggio di notte. Ci fu rinnovato l'invito 15 giorni dopo. Appena Karol Wojtyla mi vide, esclamò: “Oh, finalmente conosco l'uomo volante!”. Siccome le processioni papali entrano in basilica dalla cappella della Pietà, lui, che era un ex operaio, passando lì sotto aveva capito che razza di audacia ci fosse dietro quel ponteggio autosollevante e autoreggente. Volle che ci fermassimo a colazione».

Qual è la prima cosa che guarda al momento di assumere un operaio?

«Che non abbia troppi passaggi sul libretto di lavoro. Se ha cambiato quattro o cinque ditte, meglio lasciar perdere. Purtroppo, causa crisi, ho dovuto mandare a casa una decina di dipendenti».

Non l'aveva mai fatto prima?

«No. I rompiballe mi bastava portarli a lavorare con me una settimana e se ne andavano da soli. Solo una volta ho fatto ricorso a un licenziamento collettivo, nel 1968, mi pare. Il capofficina venne a minacciarmi: “Se glielo ordino io, le maestranze incrociano le braccia”. Ah, sì? Allora tutti fuori dai coglioni! Tirai giù l'interruttore della corrente e mi barricai da solo dentro lo stabilimento. Dopo una settimana, ripartii con una ventina di nuovi assunti. Allora si poteva fare».

Come le saltò in mente di voler salvare il polo chimico di Marghera?

«Sulla carta era un affare. La Vinyls apparteneva al gruppo inglese Ineos, terzo al mondo con 47 miliardi di euro di fatturato, ma faceva acqua da tutte le parti. La mia Videa lavorava lì dentro. Se avesse chiuso, sarei rimasto a piedi anch'io. Così andai a trattare con l'Ineos e con l'Eni, che forniva la materia prima ed era il maggior creditore. Misi sul piatto 80 milioni per saldare i debiti e 8 simbolici per un impianto tecnicamente già morto. Il primo giorno che misi piede a Porto Marghera dissi alle maestranze: cominciano gli anni dei doveri, dimenticatevi le bandiere rosse e gli scioperi. Però nessuno dei politici che mi spinsero a intervenire per salvare i posti di lavoro ebbe il coraggio di spiegarmi che i contratti con l'Eni erano in scadenza. Gli inglesi compravano il dicloroetano dall'ente allora presieduto da Paolo Scaroni a 74 euro la tonnellata, e non lo pagavano; a me fu messo a 280 euro la tonnellata, un aumento del 278 per cento. Dopo tre settimane ero già fuori mercato. Eppure, nonostante l'impianto girasse a metà delle sue potenzialità, in due mesi il qui presente Sartor Fiorenzo, pagati stipendi e materie prime, riuscì ugualmente a tirar su 40 milioni di euro».

Mi sta dicendo che fu un trappolone?

«Precisamente. Volevano che facessi fallire l'azienda al posto loro. L'Eni aveva deciso di uscire dalla chimica».

Per quale motivo?

«Perché qualcuno aveva già stabilito che il mercato nazionale del Pvc se lo spartissero i francesi di Solvay e Arkema. L'unico che mi aiutò fu il sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, che si scusò per avermi trascinato nel baratro del piano di salvataggio. “Ci sono cascato anch'io”, si giustificò. Gli credo».

Come mai è console onorario della Somalia?

«Lo ero. Oggi lo sono del Kenya. Ho trattato con tutti. Dalla Cina e dall'India importavo riso, farina, zucchero e olii di semi in tutta l'Africa. In Somalia ho negoziato personalmente con Siad Barre».

Mi risulta che nel 2008 il ministero del Lavoro brasiliano l'abbia messa sotto inchiesta per sfruttamento della manodopera indigena.

«Una cazzata. Nelle mie piantagioni di canna da zucchero lavoravano molti paraguaiani, per i quali non ero tenuto a versare i contributi. Lo stabiliscono le leggi del Brasile, mica di Sartor. Dimostrai che avevo ragione».

Lei riceve uno stipendio?

«No. Per vivere mi bastano i 1.000 euro al mese della pensione».

Su che cos'ha investito di più per agguantare il successo?

«Sul mio lavoro. Ancora oggi ne sono innamorato come il primo giorno. Mi frega la carta d'identità».

Come vede l'Italia?

«Alla frutta. E pure il Nordest. I quattro imprenditori bravi che c'erano qui sono stati abbandonati. Veniamo considerati tutti colpevoli fino a prova contraria. La popolazione cala, l'edilizia che trainava l'economia è ferma, il Paese è demoralizzato. Si è realizzata la profezia di mio nonno Donato, un uomo saggio, che non aveva studiato, morto quando io avevo 13 anni. “Fiorenzo”, mi diceva, “l'Italia diventerà grande, poi i politici la ridurranno a una piccola spelonca di ladroni. Tu farai in tempo a vederla grande. Ma i tuoi figli, e i figli dei tuoi figli, no”. Era molto cattolico. M'insegnò le preghiere, anche se non le recito più da tanto tempo. Quando vado a trovarlo in cimitero, se potessi me lo riporterei a casa».

(737. Continua)

stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

 

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