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L'inquisitore del Cavaliere si fece raggirare da un pentito

Anche il pm Di Matteo si è bevuto le panzane di Scarantino che si era intestato la strage di Borsellino

L'inquisitore del Cavaliere si fece raggirare da un pentito

Quando si discute tra pm antimafia parlano le carte. E le carte dicono che anche il pm Antonino Di Matteo, che oggi punta il dito contro Silvio Berlusconi e il suo ruolo nella fantomatica trattativa Stato-mafia, si è bevuto senza fiatare le panzane del finto pentito Vincenzo Scarantino, che si era intestato un ruolo importante nella strage in cui morì Paolo Borsellino. Vanificando la possibilità di scoprire la verità, sepolta forse per sempre dalle migliaia di pagine di quattro processi infiniti. Certo, Scarantino fu probabilmente imbeccato dall'ex capo della Mobile Arnaldo La Barbera, con cui ebbe un numero spropositato di cosiddetti «colloqui investigativi» che servirono a ricostruire la falsa dinamica dei preparativi della strage, poi ricostruita qualche anno dopo. Ma tant'è. Per il magistrato che in caso di vittoria M5s è in predicato di finire al Viminale, i processi per la strage di via D'Amelio sono una macchia indelebile che solo i pasdaran giustizialisti non vogliono vedere.

Questo dicono gli atti giudiziari. E questo dice Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato antimafia saltato in aria assieme alla sua scorta sotto casa della madre. La scorsa estate dopo 25 anni di dolore silenzioso la Borsellino ha puntato il dito contro il pool di magistrati e su Di Matteo, alle prime armi con la toga addosso. «Quell'eccidio meritava che a fare l'inchiesta fossero persone con esperienza», forse tradite «dall'ansia del risultato». «Io non so se Di Matteo fosse alle prime armi. E comunque mio padre non si meritava giudici alle prime armi, che sia chiaro. Sta di fatto che sono stati buttati 25 anni». È vero, Di Matteo arrivò qualche mese dopo le dichiarazioni di Spatuzza, e forse non ha avuto la forza, da giovane magistrato, di prendere le distanze da una ricostruzione a dir poco claudicante. Coraggio che per esempio ebbero due magistrati come Roberto Sajeva e Ilda Boccassini, che da pm applicato a Caltanissetta dove si era fatta catapultare da Milano per indagare sulla morte del suo amico Giovanni Falcone, con una lettera invitò i colleghi a dubitare di quel pentito a fasi alterne e poco credibile.

Tra i due non corre buon sangue. E si vede. Proprio alla Boccassini, più volte, Di Matteo ha lanciato diverse frecciatine, l'ultima proprio durante un'audizione alla commissione Antimafia: «La Boccassini? Chiamarmi in causa è un fuor d'opera, certe volte temo sia volontariamente fatto sfruttando la buonafede e la comprensibile sete di verità di molte persone. Se Scarantino è stato il pupo che ha fatto le dichiarazioni, bisogna vedere come si è arrivate a queste. Forse ricordo male ma al primo interrogatorio di Scarantino c'era anche lei...». Una specie di chiamata in correità.

Di Matteo però non si è limitato a fidarsi dei suoi colleghi più esperti. No. Ha - legittimamente - difeso l'impianto dell'accusa anche molto tempo dopo.

Tanto da far appello contro alcune assoluzioni decise per esempio nel 1999 dalla Corte d'assise allora presieduta da Carmelo Zuccaro (oggi procuratore di Catania a caccia dei rapporti tra scafisti e Ong), che nelle motivazioni del processo Borsellino-ter definì l'impianto accusatorio «parto della fantasia dei pentiti».

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