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L'odissea assurda di Incalza, mister sedici assoluzioni

Per anni è stato dipinto come il perno di un sistema corrotto. Invece non è mai arrivato neanche a processo

L'odissea assurda di Incalza, mister sedici assoluzioni

Due anni fa, quando lo arrestarono, il suo nome veniva associato in automatico alla parola sistema: si, il sistema Incalza. Diventò un mantra sui giornali e in tv: Ercole Incalza era ovunque e tutti lo descrivevano come un boiardo di Stato, un tecnico abilissimo che nelle pieghe della legge coltivava i propri interessi. Il signore del malaffare all'ombra di accordi indicibili, relazioni altolocate, tavoli fra potenti. Oggi le carte della magistratura, sentenze e decreti, ci restituiscono un'altra storia: meno affascinante, forse, ma ugualmente inquietante. Il manager settantaduenne è finito sul binario morto dell'archiviazione. Zero elementi, non si andrà neppure in aula perchè non ne vale la pena. Non ci sono prove, il procedimento finisce qua, anche se un troncone superstite, un relitto delle prime, devastanti accuse, è ancora in giro, disperso fra Firenze e altre città dove dovrebbe approdare.

Lui riassume in poche battute una storia drammatica che dovrebbe far riflettere, sia detto senza proclami, proprio nel giorno in cui si celebrano i 25 anni di Mani pulite: «Sono stato arrestato nel marzo 2015 con una sfilza di accuse, dalla corruzione alla turbativa d'asta fino all'associazione a delinquere. Il mio nome era sulla bocca di tutti, come l'esempio eclatante del marcio che c'è nel nostro Paese. Bene, sono stato 19 giorni in carcere e 71 ai domiciliari, tutte le mie attività sono state spazzate via. Adesso il gip mette la parola fine su richiesta del pm».

Ma c'è di più, a completare la parabola del mandarino che stava ai vertici del Ministero delle infrastrutture: «Questa è la sedicesima volta che vengo inquisito e la sedicesima che vengo scagionato, senza mai e sottolineo mai, dovermi difendere in aula». Perchè i capi d'imputazione, clamorosi o eclatanti che fossero, sono caduti prima. Come foglie al vento. C'è da stropicciarsi gli occhi. Perche solo quest'ultimo capitolo fiorentino è una collezione di titoloni e di servizi da copertina: la controversa galleria dell'Alta velocità a Firenze, l'hub portuale di Trieste, le grandi opere che si portavano dietro, secondo la vulgata universalmente accettata, fiumi di tangenti, sprechi faraonici, scempi ambientali. Scandali, si diceva, provocati da network sotterranei di grand commis, politici senza scrupoli, funzionari compiacenti.

Sarà pure vero, almeno in parte, ma fa una certa impressione leggere che il chilometrico atto d'accusa si accartoccia cosi, in poche, meste righe: «Rilevato che all'esito delle indagini svolte non sono stati acquisiti elementi di prova adeguati per sostenere fondatamente l' accusa in giudizio». Per questo tutta quella fragorosissima telenovela giudiziaria finisce nel cestino. A parte quel moncone ancora in viaggio, non si sa bene per quale procura.

L' opinione pubblica scommetteva sulla colpevolezza, rilanciata da talk e reportage, il ministro Maurizio Lupi veniva messo alla gogna e si dimetteva dopo aver ricevuto l'ultima razione di insulti in una livida mattina alla Fiera di Rho. L'indagine, invece, ha smentito il teorema e le manette.

Una storia che si ripete se si torna al procedimento numero quindici: qui Incalza, difeso dall'avvocato Titta Madia, era nel mirino, tanto per cambiare, per associazione a delinquere, sempre a Firenze e sempre per opere legate all'Alta velocità. Per la Procura Incalza e l'architetto Giuseppe Mele avrebbero portato un «rilevante contributo agli obiettivi dell'Associazione in quanto dirigenti dell'Unità di missione del ministero delle infrastrutture a cui faceva riferimento l'appalto Tav di Firenze». In soldoni, l'onnipresente manager avrebbe brigato per superare lo scoglio della valutazione paesaggistica: un passaggio necessario per far marciare i lavori. «Ma la vicenda - scrive il gip di Firenze - appare pregiudicata perchè l'autorizzazione non era scaduta». Tanto rumore per nulla

Come nel '98, quando Incalza, amministratore delegato della Tav nell'era Necci, fini ai domiciliari per 36 giorni. Pure allora, naturalmente, Incalza se la cavò.

Cosi per una vita, su e giù sulle montagne russe della giustizia italiana.

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