Economia

La logica dei numeri nel palazzo assediato

La logica dei numeri nel palazzo assediato

Quando ieri Ignazio Visco ha finito di leggere le sue Considerazioni Finali, la platea gli ha tributato un applauso storico. Infinito. Solo un altro governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, ne ebbe uno paragonabile: fu nel 2006, al suo esordio dopo le rumorose dimissioni di Antonio Fazio.

Presidenti e manager bancari; ex governatori (lo stesso Fazio) e alti funzionari (come Lamberto Dini e Fabrizio Saccomanni); amministratori delegati di imprese e leader di associazioni di categorie; prelati e militari: nella loro ovazione c'era tutto l'orgoglio di una classe dirigente, europeista e non più giovane, che si riconosceva platealmente nelle parole del governatore e nell'istituzione Bankitalia; e allo stesso tempo nei grandi sostenitori di Visco: lo stesso Draghi e il Presidente Sergio Mattarella, anch'essi con le loro istituzioni, la Bce e la presidenza della Repubblica. Insomma: la quintessenza di quella élite finita sotto accusa da parte dei partiti sovranisti che hanno vinto le elezioni e che ora tirano alle istituzioni ad alzo zero. E mentre la Borsa di Milano precipitava di oltre il 3% e lo spread superava quota 300, a Roma, le parole del governatore risuonavano in un clima irreale. Con i poteri forti riuniti in un Palazzo Koch come sotto assedio. Incapaci di comprendere fino in fondo quello che stava accadendo a poche centinaia di metri, in cima al Colle del Quirinale.

Le Considerazioni Finali sono il documento annuale con cui il governatore mette il punto sulla situazione economica e finanziaria del Paese. Non è per definizione un documento politico, ma lo diventa sempre. Così ieri non era difficile leggerci una posizione del tutto opposta al «contratto di governo» e più in generale alla visione gialloverde: negli allarmi contro la revisione della legge Fornero e l'allargamento dei redditi d'inclusione; nella ricetta di un avanzo primario annuale compreso tra il 3 e il 4% del Pil (che certo non si può avere diminuendo la pressione fiscale); e soprattutto nell'affermazione che «il destino dell'Italia è quello dell'Europa». Dentro o fuori.

Con una relazione tecnicamente impeccabile Visco dimostra quello che dice partendo da un punto fermo: un debito pubblico che vale il 132% del Pil e che ogni anno implica di vendere sui mercati 400 miliardi di titoli di Stato. Una situazione che espone il Paese a «crisi di fiducia» che non ci possiamo permettere. In questo senso, dice Visco, «non sono le regole europee il nostro vincolo, è la logica economica». In altri termini, non sono i mercati o l'Europa a toglierci qualche grado di sovranità, ma è il nostro debito pubblico. La sala condivide. E forse è difficile non farlo.

Ma è proprio questa ineccepibile logica economica che ormai non passa più. Non si trasferisce più verso il basso. Non passa più dalle «élite» al «popolo». Il Paese reale, dove Visco ci ha ieri detto che la povertà assoluta è raddoppiata in 10 anni e riguarda oggi il 7% delle famiglie italiane, non ascolta o non ci crede. È caduta la comunicazione. Perché il Paese accusa ormai al suo interno una crisi di fiducia.

Quella stessa che non potrebbe permettersi verso l'esterno.

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