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Tra Londra e Bruxelles una lunga partita a scacchi

L'Europa vuole subito fuori il Regno Unito che invece traccheggia. Anche perché attende l'addio di Juncker

Tra Londra e Bruxelles una lunga partita a scacchi

La Brexit sta diventando una complicatissima partita a scacchi tra Unione Europea e Gran Bretagna, con una moltitudine di giocatori sia da una parte sia dall'altra che non sempre hanno chiaro di che cosa trattano e quali saranno le conseguenze delle loro azioni. Siamo all'inizio di un processo senza precedenti, il cui esito è ancora incerto ma che comunque peserà sul futuro del continente per lungo tempo. La partita si intreccia con quella in corso all'interno della Unione Europea, dove la posizione di Jean-Claude Juncker, accusato di gravi errori nel confronto con gli inglesi, sta vacillando e prende corpo la candidatura del presidente del Parlamento europeo Martin Schultz (con il problema che, al contrario di Juncker, è un socialista). Il quale, essendo tedesco, garantirebbe condizioni molto più favorevoli alla Gran Bretagna nella difficile trattativa. Da qui la poca fretta di Londra a chiudere la partita.

Il primo punto fermo è che, contrariamente a quanto pensano molti, per il momento sul piano del diritto non è successo nulla: il Regno Unito rimane a tutti gli effetti membro della Ue, soggetto a tutte le sue regole e nel contempo titolare di tutti i suoi diritti. Non potrà, cioè, limitare l'ingresso dei cittadini dell'Ue, né ridurre i suoi contributi a Bruxelles come i sostenitori del Leave aveva promesso agli elettori - ma continua anche ad avere immutato accesso al mercato unico.

Per dare un seguito al referendum - solo consultivo - che ha determinato il Brexit, il governo britannico deve prendere l'iniziativa di invocare l'articolo 50 del trattato di Lisbona, unico strumento per una uscita negoziata dall'Unione. L'Europa, forse anche per spirito di rivalsa, è (quasi) unanime nel sollecitarlo ad affrettare i tempi, iniziare al più presto i negoziati sulle modalità del recesso ed evitare così un lungo periodo di incertezza, ma non è in grado di prendere iniziative. Gli inglesi traccheggiano. Cameron, si è dimesso, ma lascerà Downing Street solo quando il partito conservatore avrà scelto il suo successore, e toccherà a quest'ultimo decidere come e quando procedere. Logica vorrebbe che il prescelto fosse Boris Johnson, uno dei leader del Leave, ma la maggioranza dei Tories non lo ama, non lo giudica all'altezza del compito e gli preferirebbe Theresa May, stimata ministra dell'Interno di Cameron che, pur essendo di matrice euroscettica, si è ben guardata dal fare campagna.

Come deciderà di muoversi il nuovo premier ancora non si sa. Dopo il Brexit, Johnson ha fatto una sorprendente marcia indietro, promettendo che la Gran Bretagna rimarrà comunque un Paese europeo, che lascerà la libera circolazione per i cittadini e che comunque farà accordi per restare a pieno titolo nel mercato unico: un discorso che non è piaciuto affatto ai suoi alleati dell'Ukip, che vogliono un distacco molto più netto, ma che ha confermato quello che molti analisti sospettavano: i variegati sostenitori del Leave non hanno concordato preventivamente un piano per gestire il divorzio dall'Europa e almeno all'inizio navigheranno a vista.

Ma, se a Downing Street andasse la May, non è neppure certo che Londra invochi subito l'articolo 50. Secondo gli esperti, avrebbe ancora tre strade per fare marcia indietro, sempre naturalmente (ed è un grosso se) l'Europa glielo consenta. 1) Un Parlamento in cui gli anti-Brexit sono in larghissima maggioranza, potrebbe ignorare il referendum, giustificando il palese schiaffo alla democrazia con l'interesse nazionale. Ma sarebbe una mossa rischiosa, perché infurierebbe metà della popolazione e farebbe il gioco dell'Ukip. 2) Appigliarsi a una risoluzione della Camera dei Lord, secondo la quale per procedere con il Brexit è necessario il consenso dei Parlamenti di Scozia, Irlanda del Nord e Galles; e poiché i primi due sono contrari, l'uscita dall'Europa sarebbe impossibile. 3) Ricorrere a un nuovo referendum, per cui sono già state raccolte, sia pure con regole alquanto disinvolte, 4 milioni di firme. Questo, tuttavia, sarebbe giuridicamente possibile solo in presenza di una scelta diversa, cioè se al posto delle concessioni che l'Europa aveva accordato a Cameron (e che sono decadute con il voto) si votasse su presupposti diversi. È quanto fu fatto per ottenere un referendum bis da Irlanda e Danimarca, quando in un primo tempo si rifiutarono di ratificare i trattati di Maastricht e di Lisbona. Il guaio è che oggi l'Europa non è certo dell'umore di offrire condizioni più attrattive; per giunta, se vogliamo credere a un sondaggio, solo l'uno per cento di coloro che hanno votato per il Brexit sarebbe incline a cambiare campo.

Le probabilità sono, perciò, che il nuovo governo britannico invochi l'articolo 50 al più tardi in ottobre, avviando così formalmente i due anni di negoziati previsti per risolvere gli innumerevoli problemi del divorzio. Solo alla loro conclusione, la Gran Bretagna cesserebbe di far parte della Ue. Anche qui, tuttavia, non c'è chiarezza. Gli inglesi vorrebbero avviare contemporaneamente le trattative sull'uscita e quelle sul «dopo Brexit», cioè sul nuovo rapporto che il Paese intende instaurare con la Ue. La Germania e alcuni suoi alleati non sembrano contrari, altri Paesi (che forse sperano qualche vantaggio dall'uscita degli inglesi), e la Commissione sì. La prima decisione in materia spetta al Consiglio europeo, dove la Merkel è più forte, e Londra spera che quando la palla passerà alla Commissione questa sarà stata rinnovata.

L'ultimo braccio di ferro, che si svolgerebbe soprattutto all'interno delle istituzioni europee, potrebbe essere decisivo, perché una cosa è se la Gran Bretagna esce dalla Ue senza rete di sicurezza, una cosa del tutto diversa se, quando scoccherà l'ora X, sarà già stato definito il nuovo rapporto tra Londra e Bruxelles, magari simile a quello esistente oggi con la Norvegia.

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