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L'ultimo giallo del caso Imane: il pm sapeva e non l'ha sentita

La procura informata subito del ricovero dell'accusatrice. E ora l'ordine: "Nessuno può avvicinarsi alla salma"

L'ultimo giallo del caso Imane: il pm sapeva e non l'ha sentita

Nel groviglio di ritardi e di misteri che circonda la morte di Imane Fadil una domanda si impone, tanto scomoda quanto inevitabile. Riguarda il ruolo che nell'intera vicenda svolge la Procura della Repubblica di Milano: che era perfettamente a conoscenza del calvario attraversato da quella che per i pm era a tutti gli effetti una supertestimone, una fonte decisiva nei processi già celebrati e in quelli ancora in corso intorno alle serate nella villa di Silvio Berlusconi. Imane Fadil si era fidata dei pm milanesi, di tutti quelli che in questi anni si erano avvicendati nell'indagine. E si potrebbe immaginare che la Procura la ricambiasse con l'attenzione che si riserva ai testimoni preziosi.

Invece no. Poco dopo la metà di febbraio, in Procura arriva dalla clinica Humanitas, dove la modella marocchina è ricoverata, la notizia che Imane sta male e che denuncia di essere stata avvelenata. La segnalazione arriva alla polizia giudiziaria e viene girata al pm di turno. Che potrebbe precipitarsi a Rozzano, all'Humanitas, acquisire la cartella clinica e soprattutto parlare con la donna. Ma non accade nulla di tutto questo. E non è l'unica omissione inspiegabile.

L'1 marzo, alle 6,30 del mattino, Imane muore. La Procura viene informata subito, tanto che poco dopo mezzogiorno vengono sequestrati la cartella clinica e il corpo della donna. Il primo passo ovvio, immediato, è l'autopsia per cercare di capire le cause di un decesso inspiegabile. Ma l'autopsia non viene effettuata. Per due intere settimane Imane Fadil rimane chiusa nella cella all'obitorio. Giovedì scorso il suo legale va dal procuratore, Francesco Greco, chiedendo spiegazioni di questa apparente inattività. L'indomani Greco annuncia alla stampa la morte della testimone e l'apertura dell'inchiesta. Finalmente viene disposta l'autopsia.

Il primo ritardo, il mancato interrogatorio di Imane Fadil, lascia un buco ormai incolmabile: nessun verbale riporterà mai la sua verità. Ma conseguenze difficilmente riparabili rischia di averle anche il secondo ritardo, quello nell'esecuzione dell'esame medico legale. Perché non stiamo parlando di una morte per ferita d'arma da fuoco, i cui segni rimangono stabili. Le tracce dei metalli decadono progressivamente, i risultati che troveranno i medici in sede di autopsia saranno sicuramente diversi da quelli che il centro antiveleni di Pavia individuò e segnalò all'Humanitas l'1 marzo, il giorno stesso della morte della donna. E questi ultimi sono sicuramente molto diversi dai valori iniziali, quelli che si sarebbero riscontrati se l'esame fosse stato effettuato subito dopo il 29 gennaio, il giorno del ricovero di Imane.

Nessuna delle concentrazioni di metalli indicate nelle analisi di Pavia è neanche lontanamente vicina alla soglia di tossicità. Un paziente che abbia subito un trapianto di anca anni fa, con le vecchie tecniche, convive abitualmente con decine di microgrammi di cobalto per litro, mentre Imane era intorno allo 0,7. Ma il problema è un altro: qual era la concentrazione il 29 gennaio? Non lo si saprà mai.

Di certo c'è che il giorno del ricovero la donna aveva il midollo spinale in condizioni pessime, praticamente non produceva più globuli bianchi. Se la causa è stata una esposizione a metalli radioattivi, significa che l'esposizione è stata violenta. E, poiché le conseguenze sul midollo non sono immediate, si può ipotizzare che l'esposizione fosse avvenuta dieci o quindici giorni prima del ricovero.

L'ora del delitto, se di delitto si è trattato, andrebbe dunque fissata tra il 15 e il 20 di gennaio. E così si torna ai giorni dell'ultima sconfitta di Imane, la estromissione dal processo Ruby ter, che l'aveva avvilita e indignata. Sono i giorni in cui la ragazza si sente abbandonata da tutti, anche dai giudici cui si era affidata.

E sono i giorni in cui incontra la morte.

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