Politica

Maduro è a un bivio: deve aprire al dialogo o il regime imploderà

Il Paese si trova in uno stallo, ma il dittatore gode ancora di molti appoggi internazionali

di Paolo Manzo

P er capire cosa potrebbe succedere in Venezuela partiamo da una premessa generale. Non è facile che regimi autoritari come quello di Nicolás Maduro escano con le buone e, oggettivamente, non pare plausibile che i 54 Paesi che hanno riconosciuto Juan Guaidó, pur con tutte le loro differenze ed interessi nella regione si imbarchino in una missione internazionale, neanche gli Stati Uniti di Trump. La scelta di ieri di Guaidó di liberare Leopoldo López grazie all'appoggio di apparati delle forze di sicurezza bolivariane che hanno scelto di stare dalla sua parte deriva da questo presupposto ma dimostra anche la debolezza crescente di Nicolás Maduro agli occhi di gran parte della popolazione, stremata da anni di penuria e fame.

E qui sta l'altro dato fondamentale: dal 2015, anno in cui il 70% dei venezuelani votò contro il partito di regime proprio perché stanchi di patire la fame e dovere emigrare, invece di fare un passo indietro ed accettare le regole democratiche il delfino di Chávez non ha fatto che violare la Costituzione chavista con un crescendo rossiniano. Prima non riconoscendo grazie al controllo del tribunale elettorale i deputati dello stato di Amazonas che avrebbero garantito la maggioranza dei due terzi all'opposizione in Parlamento. Poi mettendo un pluriomicida alla guida della Corte Suprema. Infine, annunciando il primo maggio di due anni fa e per bocca dello stesso Maduro, la sostituzione di un Parlamento esautorato di fatto di ogni potere con un'Assemblea Costituente incentrata sul modello comunista cubano. Date queste premesse risulta difficile oggi prevedere lo sviluppo venezuelano perché, se da un lato sul fronte internazionale, il climax pro Guaidó si era raggiunto con il concertone del 22 febbraio scorso che avrebbe dovuto precedere di 24 ore l'entrata degli aiuti umanitari da Colombia, Brasile e Curaçao, oggi il regime è al tempo stesso più debole ma anche più forte.

Più debole perché, se avesse potuto, avrebbe fatto arrestare il presidente ad Interim già il 23 gennaio scorso quando questi, sorprendendo tutti, aveva giurato basandosi su tre articoli della Costituzione che da presidente ad interim avrebbe messo fine all'usurpazione del potere di Maduro (rieletto in un voto farsa lo scorso maggio) per poi instaurare un governo di transizione e procedere ad elezioni libere. Più forte perché, con il trascorrere dei mesi, gli organismi internazionali vicini al castro-comunismo o ad altre dittature non hanno fatto mancare l'appoggio al regime e, soprattutto, la gente non ha ricevuto gli aiuti tanto agognati (quelli distribuiti dalla Croce Rossa non hanno avuto un impatto significativo). Il risultato? Il cronoprogramma che potrebbe uscire dopo la decisione di ieri di Guaidó di liberare dai domiciliari Leopoldo López e iniziare così la fine dell'usurpazione potrebbe portare sì ad elezioni anticipate, ma senza il cambiamento sperato. Molto dipenderà da quanto faranno da oggi in poi i venezuelani ma soprattutto le Forze armate.

Di certo c'è che dopo l'inizio dell'Operazione Libertà la situazione sembra essere arrivata ad un punto di stallo che potrebbe essere risolta in due modi: o con il ritorno ad un tavolo del dialogo e questo è senz'altro l'interesse della dittatura di Maduro, o con un crollo del regime, un implosione, sul modello di quanto accadde in tanti Paesi ex comunisti, a fine anni Novanta.

Per folle che possa apparire «dove finisce la logica comincia il Venezuela» mi diceva un amico italo-venezuelano e dunque, al momento, entrambi gli scenari rimangono aperti.

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