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Ma Mani pulite colpì un sistema già morto

Nel dibattito tra Mattia e Vittorio Feltri su Mani Pulite mi sento d'accordo col padre

Ma Mani pulite colpì un sistema già morto

Nel dibattito tra Mattia e Vittorio Feltri su Mani Pulite mi sento d'accordo col padre. È impossibile negare che alla fine degli anni '80 il sistema dei partiti aveva elevato a sistema la corruzione e che la classe dirigente ne aveva la piena responsabilità. La risposta della magistratura era non solo legittima ma doverosa, e almeno in una prima fase si trasformò automaticamente in una campagna di moralizzazione. Ma le inchieste sono state una delle cause del crollo della Prima Repubblica, non la prima. Si sono inserite in una spinta politica che aveva già dichiarato guerra al vecchio sistema, e che era costituita dalla Lega e dal movimento referendario, che nel '91 aveva colto una clamorosa vittoria col referendum sulla preferenza unica. La crisi politica di Craxi era iniziata allora, non solo perché i 27 milioni di sì avevano travolto il suo «andiamo al mare». Il pentapartito viveva sul meccanismo partitocratico, e quindi sulla instabilità. Quando il referendum inserì nell'agenda politica la riforma elettorale Craxi divenne il grande difensore di un sistema vecchio, instabile, inefficiente. A questo punto vi sono due domande. Perché solo allora, con Di Pietro e Borrelli che divennero eroi nazionali?

E come hanno influito le inchieste sulla costruzione di una democrazia moderna ed efficiente che allora sembrava a portata di mano? La prima riposta è semplice. Mani Pulite passò dove prima i giudici erano stati fermati perché il clima politico era cambiato, come disse Borrelli in una famosa intervista a Repubblica. Non si poteva più bloccare in Parlamento ogni autorizzazione a procedere o trasformare tante procure in un «porto delle nebbie». Fu il cambiamento politico che permise Mani Pulite, non viceversa. La seconda risposta è più complessa. Sono stato un tifoso di Mani Pulite, ma a distanza di anni mi sono convinto che le inchieste sono state una delle cause del blocco delle riforme e del disordine istituzionale in cui ancora oggi viviamo. Trasferire la battaglia dall'arena politica a quella giudiziaria ha spento il cambiamento politico. Il paese non si è più diviso tra riformisti e conservatori ma tra buoni e cattivi, tra guardie e ladri, tra onesti e corrotti. Emblematico è il caso di Andreotti.

Una classe dirigente che avrebbe dovuto politicamente essere giudicata per avere accumulato un enorme debito pubblico e avere creato una instabilità permanente fu invece portata alla sbarra per processi mediatici plateali, in un clima da caccia alle streghe. A oltre vent'anni di distanza nulla è stato risolto sul tema della giustizia e il cammino istituzionale, anche se passerà il referendum costituzionale, è lontano dalla conclusione. In fondo ai due maggiori protagonisti politici andava bene così. La sinistra più giustizialista ha brandito l'arma dei processi per ergersi a campione della purezza e far dimenticare le carenze politiche. Berlusconi si è costruito l'aureola della vittima, facendo dimenticare tante altre cose. Sarebbe ora che si smettesse di raccontare la storia solo come una ininterrotta catena di incriminazioni e di processi.

Un paese non ha bisogno solo di buoni giudici, ma prima ancora di buone leggi e di una buona politica.

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