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"Maroni salvo dal carcere solo perché si è dimesso"

Le motivazioni della condanna

"Maroni salvo dal carcere solo perché si è dimesso"

Milano - E adesso forse si capisce qualcosa di più sui motivi per cui Roberto Maroni, tra lo stupore generale, l'8 gennaio scorso annunciò che non si sarebbe ricandidato alla carica di governatore della Lombardia. In quei giorni l'ex ministro degli Interni era sotto processo a Milano per i favori che avrebbe fatto a due donne del suo staff ma sembrava che la conseguenza peggiore in caso di condanna potesse essere la sua incandidabilità. Ora però arrivano le motivazioni della sentenza che ha messo fine a quel processo, dimezzando i capi d'imputazione e condannando Maroni solo per la accusa più lieve. E in questa sentenza si legge che a Maroni, condannato a un anno, viene concessa la sospensione condizionale solo perché intanto ha scelto di lasciare la carica. E quindi si può prevedere che non farà altri reati. Se l'italiano (benché giuridico) ha ancora un senso, vuol dire che se il governatore lombardo fosse rimasto al suo posto, avrebbe rischiato di finire ai domiciliari o in affidamento ai servizi sociali. Contro la concessione della condizionale pesava la «presenza di un precedente penale specifico», un'altra condanna di cui ieri, peraltro, i legali di Maroni negano l'esistenza. L'aspra conclusione cui approdano i giudici fa un certo effetto anche perché arriva al termine di novanta pagine dedicate in larga parte a riabilitare l'ex governatore, riconoscendone l'innocenza dall'accusa più grave che gli era stata mossa dal pm Eugenio Fusco: concussione per induzione, per avere costretto i vertici di Expo a imbarcare con lui in una missione a Tokyo la sua collaboratrice Maria Grazia Paturzo, che la sentenza definisce legata da Maroni «da una relazione non solo professionale». Qualunque fosse il sentimento che legava i due, per i giudici la presenza della Paturzo nella missione «aveva una sua giustificazione formale», visto il suo incarico; e soprattutto Maroni non fece nulla di illecito per imporla. Per l'accusa, la prova regina era un sms che un collaboratore di Maroni manda ai vertici di Expo: «Il Pres ci tiene», una sorta di ultimatum. Invece per i giudici nel messaggio «non sono ravvisabili né la perentorietà né il carattere ultimativo», «il contenuto del messaggio appare qualificabile più come una riproposizione della richiesta».

E «le considerazioni del pm appaiono, più che fondate su effettivi dati sostanziali, una forzata interpretazione del dato letterale».

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