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Un Matteo è di troppo Ma la scelta non è questione di bon ton

La libertà e la democrazia stanno nelle urne, non nei furti con destrezza. Se il Matteo di Firenze lo capisce, parliamone. Altrimenti, come alleato, meglio Salvini

Un Matteo è di troppo Ma la scelta non è questione di bon ton

Giuliano Ferrara, geniale pensatore e fondatore di quella chicca che è Il Foglio , ieri ha scritto un articolo dal titolo: «Come ha potuto Berlusconi scegliere il Matteo sbagliato e il suo gioco delle tre felpe?». Non si dà pace, Ferrara, del fatto che il Cavaliere tenga il muso a Renzi e allunghi la mano a Salvini. Perché il primo, sintetizzo «è un quarantenne serio, preparato, abile, che gli assomiglia in tutto, che ha conquistato il Pd senza mai dargli addosso, che ha isolato Camusso e Landini», mentre il secondo «ha una faccina losca, una oratoria da trivio, amichetti fascisti, insegue la Le Pen, posa nudo e presto verrà fatto fuori per impresentabilità sociale».

Il ragionamento di Ferrara fila se lo si tiene confinato nelle accademie dei salotti e tra gli intellettuali che le frequentano. Meno se lo si cala nel ring della politica, dove sangue, sudore, furbizie e colpi bassi sono quotidianità. Lo stesso Ferrara - correva l'anno 1994 - non ebbe alcuna remora a fare il ministro in un governo (il primo Berlusconi) con leghisti più puzzoni e impresentabili di quelli odierni, oltre che con fascisti ben più fascisti dei quattro ragazzotti di CasaPound che oggi applaudono Salvini. Ricordate? Bossi invocava in canotta sudata la secessione, minacciava di ripulire le valli bergamasche coi mitra, Roma era ladrona e i vu' cumprà andavano espulsi. Per non parlare di Fini e soci, gente che da poche ore aveva sospeso il saluto romano e riposto nei cassetti i santini del Duce.

Così nacque l'avventura del centrodestra, è storia. E così, sotto la paziente mediazione di Berlusconi, andò avanti per vent'anni. Poi - grazie alla sospensione della democrazia orchestrata da Giorgio Napolitano - arrivò al potere il Matteo. Anche noi lo guardammo con interesse. Titolammo a tutta pagina «Forza Renzi» nei giorni delle primarie Pd, e definimmo poi «rivoluzionario» il patto del Nazareno. In seguito, ancora ottimisti sull'affidabilità dell'uomo, abbiamo minimizzato la costante violazione degli accordi sulle riforme e ci siamo turati il naso di fronte a una politica fiscale che ha massacrato case e risparmi. Abbiamo invece alzato la voce per lo strappo su Mattarella, ma non tanto per il nome e neppure per il metodo discutibile.

È che proprio sull'elezione del capo dello Stato accadde qualche cosa di nuovo. Renzi concordò non con Berlusconi (che ordinò ai suoi l'astensione) ma con un gruppo di deputati e senatori di Forza Italia (che infatti firmarono le schede a favore di Mattarella per farsi riconoscere) un voto amico che aveva il sapore di una dichiarazione di fedeltà assoluta. E mi è tornato in mente quando anomalie simili erano accadute ai tempi di Fini (che prendeva segretamente ordini da Napolitano per poi attuare la scissione) e di Alfano (che tramava con Enrico Letta e poi portò a sinistra un altro pezzo di Pdl). Siccome non c'è due senza tre, mi sono detto: vuoi vedere che ci risiamo, che Renzi, con la scusa del Nazareno, sta provando a rubare il partito di Berlusconi; a differenza di Salvini che, più lealmente e alla luce del sole, al Cavaliere contende elettori. A me fa paura solo il primo, anche se veste bene e parla in modo più forbito del secondo. La libertà e la democrazia stanno nelle urne, non nei furti con destrezza. Se il Matteo di Firenze lo capisce, parliamone.

Altrimenti, come alleato, quello di Milano resta un'alternativa onorevole e politicamente fondata.

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