Politica

Mattis il capo dei marines «Cane pazzo» alla Difesa

Una fama da duro, per gli amici è il «monaco guerriero». Ma il Congresso potrebbe stopparlo

Gian Micalessin

Per i marines che lo seguirono tra le gole dell'Afghanistan nel 2001, per quelli che ai suoi ordini espugnarono nel 2004 il regno iracheno di Al Qaida chiamato Falluja, lui è semplicemente Mad Dog il «Cane Pazzo». Ma per gli ufficiali di pari grado e per gli amici è Monk Warrior, il «monaco guerriero», invecchiato senza mai prender moglie e senza mai comprare una televisione. La vera natura di James Mattis, il 66enne ex generale a quattro stelle scelto da Donald Trump come prossimo segretario alla Difesa si cela tra quei due soprannomi. Chi sia il «cane pazzo» lo sanno tutti. E il generale senza peli sulla lingua, pronto a raccontare che «far fuori certe persone è un gran spasso» soprattutto «se vai in Afghanistan e ti ritrovi davanti gente abituata per anni a prender a schiaffi le donne solo perché non portano il velo». Ma il ringhio del cane pazzo riecheggia anche nella celebre e lapidaria frase con cui spiegò la ricetta per sopravvivere in Irak. «Devi essere gentile, professionale, ma sempre pronto a far fuori chiunque incontri». O in quell'altra in cui riassunse così la predisposizione di un ufficiale alla vittoria o alla sconfitta. «In guerra ci sono cacciatori e prede. Dipende dalla tua disciplina, dalla tua obbedienza, dalla tua capacita e dalla tua attenzione rientrare nell'una o nell'altra di quelle due categorie».

Per i suoi detrattori - allineati all'ombra di un'amministrazione Obama che lo considerava un pericoloso estremista, e nel 2013 non esitò a sostituirlo alla testa del Comando Centrale, quelle battute esasperate - ribattezzate mattisism, «mattisate» - disegnano al meglio la natura di un super falco imbarazzante, impresentabile e incontrollabile. Eppure tra il dire il fare, tra lo straparlare di quel «cane da guerra» e la ponderatezza di un generale conosciuto per la maniacale attenzione riposta nello studio del nemico e del campo di battaglia vi sono una laurea in storia e un libreria di oltre 6mila volumi dedicati - dice lui - «allo studio di 5mila anni di arte della guerra». Una libreria diventata la vera fonte ispiratrice di ogni spedizione. «Grazie alle mie letture non mi sono mai sentito preso alla sprovvista... Non m'hanno dato tutte le risposte, ma spesso hanno contribuito a illuminare un sentiero altrimenti assai buio» racconta il monaco guerriero ricordando di aver usato i libri inglesi sulle campagne afghane del 19° secolo per studiare l'avanzata nei territori talebani e i racconti delle batoste britanniche a Kut, nella prima guerra mondiale, per preparare l'arrivo dei marines in Irak nel 2003. E proprio la doppia e impenetrabile identità di questo generale - tanto impulsivo quanto cerebrale - sembrerebbe aver affascinato un Donald Trump convinto, prima d'incontrarlo, di poter sconfiggere i terroristi ripristinando il water-boarding e altre amene torture. «A dire il vero - spiegò al loro primo incontro il generale - non mi sono mai sembrati così indispensabili... Con un pacchetto di sigarette e un paio di birre ho sempre ottenuto risultati migliori che non con la tortura». Dopo quella prima lezione il neo presidente ha iniziato a definirlo «la cosa oggi più vicina al generale Patton». Ora bisogna però vedere se riuscirà a far digerire la sua nomina a un Congresso chiamato a votare un'eccezione alla legge che impedisce a un militare di assumere la guida del Pentagono prima di sette anni d'effettivo ritiro dal servizio.

Un'eccezione non da poco visto che prima del «cane pazzo» c'è riuscito soltanto il generale George Marshall nominato segretario alla Difesa nel lontano 1950.

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