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Le minacce degli impotenti: Di Maio è una tigre di carta

I continui attacchi a Tria fotografano l'incapacità M5s: devono trovare un nemico per nascondere i loro errori

Le minacce degli impotenti: Di Maio è una tigre di carta

Dalla nascita del governo le minacce rivolte a più riprese dal vicepremier, Giggino Di Maio, contro il ministro dell'Economia, Giovanni Tria, non si contano. Con la sortita di Rocco Casalino, portavoce di Giuseppe Conte, all'insegna del lessico fecale, è stata pianificata addirittura una rappresaglia: se il ministro dei numeri non cederà sul reddito di cittadinanza, il movimento passerà il 2019 a far fuori gli alti papaveri del Mef e, probabilmente, lo stesso Tria. Una sorta di tiro al bersaglio. Ma il prossimo anno, non ora. E già, il posticipare la revanche all'indomani dell'argomento del contendere, cioè la legge di bilancio, dimostra che siamo di fronte più che a una prova di forza ad una dimostrazione di impotenza. Per usare una felice espressione di Mao tse tung, i grillini sono tigri di carta: terribili nelle parole, ma non negli effetti.

Il motivo? Semplice: non sono cattivi, sono solo incapaci. In quattro mesi si sono infilati da soli in questo cul de sac. Invece di agire in silenzio, hanno messo in scena il festival delle parole, dei proclami, delle minacce non solo verso i protagonisti della cosmologia del Male secondo la retorica populista-sovranista (da Bruxelles, ai mercati). No, se così fosse, in una certa misura, uno potrebbe anche essere d'accordo. La verità è un'altra, meno ideologica e più basica: Di Maio e soci se la stanno prendendo pure con la matematica e con le leggi più elementari che regolano l'economia. Se i soldi per il loro programma non ci sono, non ci sono e basta.

In fondo lo si sapeva. Il contratto del governo del cambiamento, infatti, non è una fusione tra il programma grillino e quello leghista: programmi che nascono su due filosofie diverse, per non dire agli antipodi, una basata sull'assistenzialismo, caro alla sinistra di un tempo, l'altra sullo sviluppo e sugli investimenti. Semmai è una somma: alla lista della spesa dei 5stelle (le cosiddette promesse elettorali), si è aggiunta quella del Carroccio. È chiaro che anche il più abile trapezista dei numeri, neppure con tre salti mortali carpiati, può mettere in piedi in queste condizioni un bilancio per un Paese la cui economia sta rallentando a vista d'occhio. Per cui, nel governo del Premier che non c'è, il ministro dell'Economia, che ne fa le veci, ha fatto l'unica cosa sensata: si è messo nel mezzo, tra le imposizioni grilline, le richieste leghiste, i parametri della Ue, gli umori dei mercati. Ha capito che l'unico modo che ha per raccapezzarsi tra risorse e pretese, è quello di dare dei segnali che costino poco. Insomma, deve calarsi nei panni dell'illusionista: deve dimostrare che le due liste della spesa nella legge di bilancio ci sono, ma solo nominalmente. Adottando il vecchio «schema» del «si comincia e si rinvia». Così si accontentano un pochino gli elettori, un pochino Bruxelles, un pochino i mercati.

Altro modo non c'è: anche perché, facendo due conti, viene fuori, che visti i tempi, i soldi non sono neppure pochi. Bisognerebbe, però, concentrarli solo su una filosofia di politica economica: se il governo, ad esempio, li mettesse tutti su flat tax e investimenti pubblici, sarebbero un volano per rilanciare la nostra economia e innescare un processo virtuoso. Ma se devi utilizzarli anche in logiche assistenziali, le risorse fatalmente si disperdono, per cui per non indispettire Bruxelles e i mercati, devi dare almeno un segnale (l'illusione di un riduzione del debito), varando una legge di bilancio che mantenga il deficit sotto il 2% del Pil.

Purtroppo, però, il buonsenso di Tria non è di casa nella galassia grillina. E lo scontento della base pentastellata che non vede realizzare le promesse elettorali, i sondaggi che volgono verso il basso e la gelosia per Salvini, fanno il resto. Risultato: sono settimane, mesi, che le tigri di cellulosa a 5stelle ruggiscono. Effetti? Uno studio (The Ambrosetti-Osservatorio sui conti pubblici) ha calcolato che il «festival delle parole» costerà in due anni 6 miliardi di euro di interessi in più sul debito. Siamo, quindi, di fronte ad un paradosso: più Di Maio e soci minacciano Tria e più le risorse che hanno a disposizione per le loro promesse elettorali diminuiscono. Inoltre, nella loro imperizia, Di Maio e le altre tigri dello zoo di Grillo, hanno trasformato il ministro dell'Economia, al di là delle sue capacità e delle politiche che mette in atto, nella «garanzia» per Bruxelles e i mercati: con lui lo spread dorme; senza di lui esplode. Tria per Bruxelles ha lo stesso ruolo che il Ragioniere dello Stato ha per il governo: su ogni provvedimento economico il suo giudizio equivale ad una sorta di bollinatura.

Così Casalino, con le sue chat con i giornali amici, che equivalgono a delle veline 2.0 (un modo vecchio come il cucco per ispirare la stampa o per veicolare una minaccia trasportato ai nostri giorni), ha trasformato Tria in un intoccabile. Alla fine dimissionarlo dal ministero dell'Economia, rischia di costare e provocare più danni ai suoi nemici, dei suoi «No».

Un equilibrio «instabile», di cui è consapevole un personaggio avvertito come il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, che ripete ad ogni tempesta che si abbatte sul ministero dell'Economia: «Tria resta al suo posto».

Un equilibrio, appunto, paradossale, di cui è conscio anche il diretto interessato. Al capo dello Stato sempre in allarme per le intemperie che si scatenano quotidianamente nel governo gialloverde, il ministero dell'Economia, un giorno si e un altro pure, consegna questo messaggio: «Io non cederò e loro non mi toccheranno».

Un eccesso di fiducia. Forse.

O l'intuizione che in fondo Di Maio, Casalino e soci, non sono più pericolose minaccia in più, ultimatum in meno - delle «tigri di carta» del vecchio Mao.

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