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Un ministro trasformato in ragioniere che non avrà mai più voce in capitolo

Aveva promesso rigore e ha finito per calare le braghe accettando il 2,4%

Un ministro trasformato in ragioniere che non avrà mai più voce in capitolo

Ieri grazie alla ricetta dettata dal duo Salvini-Di Maio per la legge di bilancio, lo spread ha sfiorato i 280 punti, mentre la borsa di Milano si è inabissata del 5%. In questi casi il più classico dei copioni prevederebbe un intervento del ministro dell'Economia per calmare i mercati e tranquillizzare gli investitori, ma Giovanni Tria è rimasto afono, senza voce. In fondo che avrebbe potuto dire? Aveva spiegato ai quattro venti che il Def per essere accettato dall'Europa e per evitare turbolenze alla tenuta del paese, avrebbe dovuto rispettare un rapporto deficitPil dell'1,6% o, comunque, non avrebbe dovuto superare l'asticella del 2%. Invece, i due consoli Giggino e Matteo per dimostrare chi comanda davvero nel governo, lo hanno sbeffeggiato: avevano promesso che avrebbero puntato sul «numeretto» del 2,4%, e così è stato. Addirittura, hanno rilanciato, visto che su quel numero hanno deciso di puntare per un triennio. Un modo fin troppo rozzo per dire ai mercati che Tria non garantisce neppure se stesso. E lui, l'interessato, ha abbozzato. Per cui il ministro che Bruxelles, il Quirinale, la Bce avevano scelto come proprio riferimento nel governo gialloverde, quasi che fosse un via di mezzo tra un novello Luigi Einaudi e un redivivo Carlo Azeglio Ciampi, è tornato ad essere solo il ragionier Filini, l'amico di Fantozzi.

Il giudizio sul personaggio oggi può apparire fin troppo severo, ma è anche vero che se un ministro dell'Economia si sbilancia nel dare delle cifre, indicandole come il punto di equilibrio per i conti del Paese, il momento che non le fa rispettare, al costo di abbandonare il Consiglio dei Ministri sbattendo la porta, ma anzi non fa mancare il suo voto ad un Documento economico e finanziario che non ha nulla a che vedere con quello che ha teorizzato per mesi, è lui stesso, in un moto masochistico, a demolire la propria parola. E nel contempo mettendo in contraddizione il Tria di oggi con quello di ieri, apparecchia il tavolo alla speculazione finanziaria e lascia il Paese in balia della reazione dei mercati. Agli investitori, in buona o in malafede, infatti, basta citare i numeri ipotizzati dal ministro dell'Economia neppure una settimana fa, per ventilare i rischi che corre l'Italia.

Insomma, Tria ha peccato di ottimismo nel valutare il buonsenso dei suoi capi di governo. Un ottimismo che ha tratto in inganno un po' tutti, anche il Capo dello Stato. «Io non cederò e loro non mi cacceranno», era la rassicurazione che aveva recapitato sul Colle nel week-end scorso. Un'espressione enfatica che alla prova dei fatti si è trasformata in un atteggiamento più modesto: ho ceduto e non mi sono dimesso. Una scelta, quella di non dimettersi, che, per onor di verità, è soprattutto il risultato delle pressioni del Presidente della Repubblica, terrorizzato per le possibili conseguenze di un simile gesto. A questo punto, però, c'è da chiedersi a cosa serve un ministro dell'Economia che la prepotenza dei due Consoli ha ridotto al rango di semplice ragioniere? Il dubbio si insinua nelle menti anche di chi nutre il più profondo rispetto e la più solidale comprensione per il professor Tria. «D'ora in avanti nessuno gli crederà più», constata il portavoce di Forza Italia, Giorgio Mulè. «Ormai non garantisce più nessuno e men che meno i mercati», rileva il piddino Andrea Romano. Mentre il suo predecessore sulla poltrona che fu di Quintino Sella, Pier Carlo Padoan, sull'argomento «dimissioni» non proferisce parola per amor di Patria. E nel governo? Il Premier Conte al solito fa lo «gnorri» sul dramma del suo ministro. E se gli chiedi della minaccia di dimissioni, ti bofonchia una risposta del tipo «non c'ero e se c'ero dormivo, e non vedevo e non sentivo». Solo il «vice» di Tria al ministero, il leghista Massimo Garavaglia, ammette la tensione ma si rifugia nell'equazione: «Meglio una scommessa che la crisi di governo». E dietro di lui si staglia il vero ministro ombra dell'Economia Paolo Savona che teorizza la guerra all'Europa.

A questo punto, però, c'è da chiedersi cosa ci stanno a fare i vari Tria, Moavero, in un governo in cui, al momento delle decisioni, contano come il due di picche. Offrono una patina di competenza, di serietà, ad un governo squisitamente politico, dove, di fatto, si pratica il gioco d'azzardo.

E alla fine i cosidetti «tecnici», senza avere voce in capitolo, finiscono solo di scaricare i due Consoli di una parte delle loro responsabilità.

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