Politica

La minoranza minaccia: questa è la tua battaglia. Poi si piega al segretario

Cuperlo non fa sconti: "Mi dimetto se dico No al referendum". La fronda esce prima del voto

La minoranza minaccia: questa è la tua battaglia. Poi si piega al segretario

Roma - C'è un momento, della drammaticamente grottesca Direzione pidina di ieri, che fotografa passato, presente e futuro di quel partito. Un livido Gianni Cuperlo, con l'invidiabile sistema di self-control sull'ultima tacca dell'indignazione, sul warning! con allarme rosso e sirena spiegata, aveva appena terminato il proprio intervento dal succo assai acre: Matteo, io la tua divisa non la metto, smettila di prenderci per il c., se non cambi almeno l'Italicum voto no e «me ne vado, mi dimetto da deputato, sta sereno».

Più che una promessa, la frattura antropologica ormai insanabile, mitigata solo da un linguaggio di cui Cuperlo si fa velo e vanto d'eleganza. E se vogliamo, visto che l'ex ghostwriter di D'Alema è l'unico che ne capisce di politica, pur non essendo cuor di leone, lo «strappo», la chimerica «scissione» sta tutta qui, in questa rabbia e indignazione trattenuta di un Ulisse impotente con la casa invasa dai Proci. Prova ne sia che, in quel preciso momento, la sala sembrava piombata nel film Frozen. Il nano (politico) di corte, al secolo Matteo Orfini, personalmente colpito dalle parole di Cuperlo, stentava a riprendersi, come un pugile al tappeto. «Non ho nessun iscritto a parlare», arrivava a dire. La seduta sarebbe potuta finire qui: l'Erdogan del Nazareno aveva parlato, l'Ebreo errante annunciato l'esilio, la claque del segretario assaporato la propria splendida vacuità. Amen.

Quanta distanza, dal resto della finzione ipocrita che si conclude come sempre con nessun voto contrario (la minoranza va via prima). Quanta, da Roberto Speranza, che «non si sottrarrà fino all'ultimo a nessun tentativo» (spera che Renzi davvero cambi l'Italicum?). O dai corifei richiamati sul podio dalle occhiatacce del leader per superare l'en passe. Gentiloni, drammatizzando il quadro internazionale («All'estero tutti vogliono sapere del referendum»); Zampa diffidando tutti da rompere l'insulso giocattolo prodiano («Un progetto nobile»); Boccia appellandosi al segretario, «che trovi soluzione alle parole dolorose di Cuperlo».

Conviene allora ripartire dal tormento dell'uomo, dal suo tragico destino: capire la pietanza, mai aver forza di prendersi il piatto. Questa la disperante condizione umana di Cuperlo. «Incomprensibile bloccare il Paese per due mesi su un referendum che non avrà impatto diretto su alcuno dei problemi che ci aggrediscono», dice al Capo. Incavolato come un gran signore davanti all'arroganza, e in particolare del trattamento riservato all'ex sindaco Marino dopo l'assoluzione: «Dico a te, Orfini: gli andava espressa vicinanza e solidarietà, invece twitti che lo hai cacciato perché incapace. Non va bene: allora quanti incapaci avremmo dovuto cacciare?» (il pensiero corre alle riunioni con D'Alema, a cosa il fine Gianni possa pensare dell'incapace ex segretario dell'agenda dalemiana, oggi sanculotto traditore).

Cuperlo non fa sconti al leader, anzi forse solo uno, l'ultimo, visto che l'ex ragazzo della Fgci tiene alla Ditta come pochi. «C'è un passo avanti che voglio cogliere, anche se ti sei arrestato a metà del sentiero, le modifiche dell'Italicum non sono un alibi, fai un passo convinto se vuoi evitare fratture, fai una proposta». Poi però dice chiaro e tondo che «la sfida vera sarà il giorno dopo. Dopo, se necessario, ci divideremo e sarebbe opportuno già interrogarsi sulle conseguenze dello strappo...». Per finire: «Hai sbagliato la lettura del Paese, Matteo. Se vinci dividendo il centrosinistra camminerai sulle macerie... Questa è la tua battaglia, non la mia». Il soldato Gianni non va alla guerra, getta via la divisa. Forse torna a casa davvero, dove c'è chi lo aspetta.

Da tempo.

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