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Moavero messo all'angolo: sparisce la politica estera

Il titolare della Farnesina isolato nel governo perché distante da Lega e M5s. E sulla linea conta più Salvini

Moavero messo all'angolo: sparisce la politica estera

«Non ne ha parlato con me, apprendo adesso che l'avrebbe detto oggi, non appena ritorno a Roma o dovessi sentirla ne parleremo insieme». La risposta di Enzo Moavero Milanesi a chi gli chiedeva del ritiro delle truppe in Afghanistan annunciato dalla ministra della Difesa non sembrerebbe uno sketch surrealista se Moavero non fosse il ministro degli Esteri dello stesso governo. Nessuno lo aveva avvisato, nemmeno fosse l'ultimo dei peones parlamentari. Un problema di comunicazione interna all'esecutivo? La questione è più seria. Un problema di peso specifico del titolare della Farnesina, il più preparato tra i ministri, ma anche quello politicamente più alieno rispetto all'asse M5s-Lega. Professore nel governo dei populisti (non laureati), europeista tra gli euroscettici, ex montiano nell'esecutivo che smonta la Fornero, uomo di Mattarella tra partiti che ne avevano chiesto quasi l'impeachment, Moavero pur occupando una poltrona chiave non ha mai toccato veramente palla dentro l'esecutivo. Di fatto sulla sua materia, la politica estera, viene scavalcato un po' da tutti e in ordine sparso. Dal premier Conte che tiene le relazioni diplomatiche, dal ministro della Difesa che decide smobilitazioni senza aver neppure mandato un sms alla Farnesina, dai due vicepremier in particolare dal ministro Salvini sul dossier immigrazione e annessi (i rapporti tesi con la Francia), persino da Di Battista che tra un viaggio e l'altro detta la linea su Putin, Venezuela, Libia, Trump. Alla voce «portavoce», sul sito della Farnesina si legge «attualmente, il ministro non ha portavoce». E il basso profilo di Moavero Milanesi, più tecnico che politico, si riflette anche sul registro dei voli di Stato: gli altri ministri (Trenta, Tria, Salvini) viaggiano più di lui, che per ruolo dovrebbe essere quello più giramondo. Il professore però non perde mai l'aplomb e quando gli facevano notare che sul global compact la Lega gli aveva imposto la linea, abbozzava con eleganza: «Non mi sento scavalcato dal ministro Salvini. Le questioni legate ai migranti si dividono tra il ministero degli Esteri e quello dell'Interno». Tutto secondo il protocollo. O quasi.

Per la sua preparazione è delegato ai tavoli tecnici e alle mediazioni con Bruxelles, la sua presenza nel governo viene tollerata perché rassicura il Quirinale, purché non sconfini nella linea politica governativa, materia che compete ad altri. Quando capita, raramente, l'effetto è dissonante. Come quando al forum «Med-Mediterranean dialogues» il ministro ha parlato dell'immigrazione con toni molto diversi da quelli dei suoi vicepremier: «Di fronte al migrante economico non dobbiamo essere ottusamente chiusi, dobbiamo porci la domanda del perché si migra». Oppure quando ha detto che «la Libia non è un porto sicuro», mentre Salvini prometteva di rispedire i barconi proprio lì.

La debolezza della Farnesina e la politica estera inesistente hanno però un prezzo elevato. Il peso internazionale dell'Italia è scarso, l'isolamento un rischio concreto, la sua collocazione un enigma sospeso tra fascinazioni russofile e appartenenza alla Nato (che sull'Afghanistan fa capire che «l'impegno resta»), visioni lontane tra Lega e M5s su Israele e regimi sudamericani. In questo caos si deve destreggiare Moavero, impegnato a mediare con partner europei (da Macron a Juncker) su cui arrivano bordate continue dal suo governo.

Un mestieraccio, era molto più semplice con Monti e Letta.

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