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Nel contratto tante pagine, nessun libro

Nel contratto tante pagine, nessun libro

Ma come è possibile che nel contratto di governo di Lega e Movimento 5 stelle non compaiano le parole «libro» ed «editoria»? In Italia ci sono due Saloni del libro, cinque Biennali, dieci festival della letteratura, mille sagre del romanzo, centomila presentazioni al giorno, un milione di sedicenti intellettuali, un miliardo di premi con giurie così squalificate da essere un vero danno per la credibilità dei partecipanti, ma non importa. Prima di tutto la cultura. Anche in televisione. Ogni fine settimana, Fabio Fazio è coperto di soldi pubblici per cantare la messa della cultura intesa come conformismo, scambio di affettuose cortesie, elogio dello stranoto. In Italia abbiamo la quota autarchica di produzioni cinematografiche, i film di interesse culturale, le film commission delle varie regioni, nelle sale ci sono il mercoledì scontato e il lunedì in svendita.

Poi ci sono la Mostra di Venezia e i mostri (cinematografici) delle molte città impegnate a produrre la propria rassegna «di ricerca», cioè noiosa come la morte ma per la cultura questo e altro, anche un film tedesco (sottotitolato) di 24 ore. A parole, la cultura è la qualità più importante di un uomo (però quando senti dire: «è un uomo di cultura» si tratta quasi sempre di un ignorante che se la tira). La cultura è il petrolio italiano, dice qualcuno molto serio. La cultura non è un tesoretto da sfruttare, non deve produrre utili risponde qualcun altro ancora più serio. Con la cultura non si mangia. Non è vero, con la cultura si mangia, almeno il buffet per i giornalisti è garantito. Ma dove vai senza cultura, ti chiedono? Mah, ad esempio a fare il ministro della (d)istruzione come testimonia il caso di Valeria Fedeli. Ovviamente ogni ministro, da Giovanni Gentile in poi, ha proposto la sua geniale riforma della pubblica istruzione, col risultato ormai ovvio che era molto meglio restare fermi a Gentile. Facciamo un dibattito al giorno: sul latino che apre la mente; sul latino che dovrebbe lasciar spazio all'inglese; sul latino che va insegnato alle medie; sulla grammatica che dipende dall'uso; sulla grammatica che deve essere inflessibile. Insomma, siamo un Paese colto che pensa alla cultura quasi tutto il giorno. In vista delle urne poi la cultura è tutto, al punto che verrebbe voglia di chiamarla campagna culturale e non elettorale. Tutto questo agitarsi in nome della cultura, non è detto produca cultura.

Ma per rendersi veramente conto di quanto interessi il tema, soprattutto a una certa classe dirigente, basta guardare il suddetto contratto di governo per il cambiamento (come pomposamente viene chiamato l'accordo). Alla cultura sono dedicate poche righe a cui possiamo aggiungere quelle dedicate a scuola e ricerca. Non si allontanano dai più vieti luoghi comuni della propaganda di qualsiasi partito. Il patrimonio culturale «ci identifica nel mondo» ed è uno «strumento fondamentale per il turismo». Davvero? Chi lo avrebbe detto. Beh, almeno avranno tagliato il Fondo unico per lo spettacolo col quale si finanziano obbrobri cinematografici? Macché, premieranno «la qualità dei prodotti artistici». Come tutti i predecessori, con risultati nulli. Il settore scuola: lotta al precariato e maggior attenzione all'innovazione (e no all'alternanza scuola-lavoro: l'unico passo apprezzabile). L'università deve essere più vicina al mondo del lavoro e collaborare con i privati. Più fondi alla ricerca, meno «baronie» universitarie. Da incentivare l'innovazione didattica on line. Rimasticature che qualunque professore, di ogni materia e grado, sente dire fin dalla prima supplenza in classe. Insomma, il governo «rivoluzionario» si accontenta dell'abusato sicuro: i soliti slogan. Niente di strano.

Tutto questo interesse per la cultura è sempre stato pura retorica.

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