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Nel Pd è guerra totale Bersani annuncia il suo No

L'ex segretario rompe gli indugi per tenere unita la fronda. Renzi gelido: ha votato la riforma 3 volte

Nel Pd è guerra totale Bersani annuncia il suo No

Roma - Alla fine, Pier Luigi Bersani sceglie di allinearsi a Massimo D'Alema: guerra totale all'intruso che ha spodestato la vecchia Ditta, e quindi no alla riforma che lui stesso - come gli ricorda Matteo Renzi - ha votato non una, ma ben tre volte in Parlamento.

Una rottura così violenta, e alla vigilia della Direzione Pd convocata proprio per parlare di referendum e Italicum, a Palazzo Chigi non se la aspettavano. Da giorni, sotto traccia, andava avanti una trattativa con la minoranza Pd per la stesura di un documento comune da approvare al parlamentino democrat sulle possibili modifiche alla legge elettorale. Tanto che lo stesso Roberto Speranza, interlocutore dei renziani come Gianni Cuperlo, ieri mattina tra i consueti ultimatum lasciava trasparire un'apertura: «La direzione è l'ultima possibilità, purché non si facciano annunci generici». Bersani si è spaventato: la sua corrente è divisa, una parte dei suoi consiglieri (gli stessi che gli suggerivano nel 2013 di «smacchiare il giaguaro», con i risultati che si sono visti) lo strattonava verso la linea dura, spiegandogli che non deve lasciare la bandiera del No a D'Alema, nel voto in Direzione la minoranza rischiava di spaccarsi. E alla fine Bersani ha deciso di rompere: «Se passa il Sì, temo che Renzi prenda l'abbrivio e vada dritto con l'Italicum». Sulla legge elettorale getta la maschera: «Serve un po' di proporzionale», dice. Accusa il leader Pd di averlo «trattato come un rottame», di non aver «mai potuto parlare di riforme», e spiega che ai tempi in cui D'Alema faceva fuori il governo Prodi per andare a Palazzo Chigi «c'era rispetto, tanto che lui propose Veltroni segretario e Prodi presidente Ue». A Bersani e D'Alema, invece - è il sottinteso - Renzi non ha offerto adeguate sistemazioni. La staffilata più severa al mancato premier arriva proprio dal prodiano Arturo Parisi: «In quella frase c'è tutto: la democrazia come oligarchia, la politica come organigramma».

La reazione di Matteo Renzi è gelida: «C'è chi fa politica per cambiare il Paese e chi solo per attaccare gli altri. Bersani ha votato tre volte sì alla riforma, in Parlamento. Se ora ha cambiato opinione, e per antipatia nei miei confronti è pronto ad affossarla, ognuno farà le proprie valutazioni». Nella Direzione di oggi, il premier sarà durissimo con una minoranza che, dicono in casa renziana, «ormai si fa dettare la linea da Brunetta e Di Maio», e con un ex segretario che minaccia la scissione: «Noi abbiamo cercato di salvare il salvabile, ma a volte trattenersi è molto difficile», risponde infatti Bersani a chi gli chiede se voglia spaccare il Pd. «La scelta di Bersani mi addolora, così si lacera il Pd. Si usa il referendum per una battaglia congressuale», dice il ministro della Cultura Dario Franceschini. E anche Matteo Orfini imputa all'ex segretario di «lavorare per spaccare il Pd». Contro Orfini inveisce Ignazio Marino, che accusa il presidente Pd di averlo «costretto» alle dimissioni: «La democrazia è stata lesa e centinaia di migliaia di romani sono stati violentati nella loro scelta da un piccolo gruppo di classe dirigente».

Gli replica l'orfiniana Anna Rossomando: «Marino dovrebbe ricordare che Orfini ha cercato di sostenerlo, fino a quando la sua inadeguatezza a guidare la città è stata non più tollerabile».

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