Politica

Quel nesso tra l'accoglienza e il reclutamento

Le prove dell'infiltrazione terroristica nei centri per i migranti. Ma la sinistra non le vede

di Gian Micalessin

L'algerino fermato nel centro migranti di Licodia Eubea e subito espulso solleva, una volta di più, il problema dell'infiltrazione di sospetti terroristi nei campi di raccolta. Un argomento tabù per quei governi Pd che dal 2014 ad oggi rifiutano, con caparbio sdegno ideologico, qualsiasi accostamento tra terrorismo e migranti. Governi che per lungo tempo hanno persino omesso d'identificare molti degli sconosciuti approdati sulle nostre coste. Proprio per questo l'espulsione dell'algerino non è né un caso nuovo, né isolato.

Il suo caso è stato preceduto, il 19 giugno scorso, da quello di un 29enne richiedente asilo iracheno, accusato di propaganda a favore del terrorismo dopo aver istigato alcuni ospiti del centro Sprar di Crotone a collaborare con lo Stato islamico, a commettere attentati e a sgozzare infedeli.

Un allarme sull'infiltrazione di terroristi nei centri di raccolta era stato lanciato, solo due mesi prima, dal procuratore generale di Caltanissetta, Sergio Lari. «Sono emersi processi di radicalizzazione di alcuni soggetti nei centri per immigrati e, attraverso monitoraggi della Polizia postale, sono state trovate sul web tracce di questi processi», spiegava in un'intervista il magistrato citando l'arresto di un pakistano membro di «un'organizzazione terroristica sunnita».

E sul problema delle collusioni e dei processi di radicalizzazione nei centri immigrati si era soffermato a gennaio di quest'anno l'ex procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio durante l'inchiesta su una rivolta nel centro di Cona. «Un'indagine fatta bene su un tessuto sociale come quello di un centro di accoglienza sovraffollato con 1.300 migranti, deve partire dal presupposto che ci possano essere anche infiltrazioni di tipo terroristico e para-terroristico», sottolineava l'ex magistrato.

Più o meno le stesse parole usate dal ministro Marco Minniti che in questi giorni ricorda come i grandi centri, spesso incontrollabili, siano i catalizzatori di quella mancata integrazione capace di favorire processi di radicalizzazione.

L'Italia però sconta anche i gravi errori commessi tra il 2014 e il 2015. In quei due anni caldi il governo Renzi e il suo ministro degli Interni Angelino Alfano omisero d'identificare una buona parte dei circa 324mila migranti sbarcati sulle nostre coste. «Con il trascorrere del tempo ci siamo organizzati, le nostre capacità sono cresciute e negli ultimi tempi fotosegnaliamo circa l'80 per cento delle persone», ammetteva a fine 2015 il capo della Polizia Alessandro Pansa chiamato a rispondere in Senato dopo la procedura d'infrazione sollevata contro l'Italia dall'Unione Europea proprio per le mancate identificazioni. A dar retta a Pansa almeno il 20 per cento dei 324mila migranti sbarcati nel 2014 e 2015, ovvero più di 64mila persone, non avevano né un nome, né un volto. Un'omissione non da poco visto che la «Relazione sulla politica dell'informazione per la sicurezza 2015» presentata al Parlamento dai nostri servizi segreti a marzo 2016 ricordava come «la massa di persone in movimento verso lo spazio comunitario, oltre a costituire un'emergenza di carattere umanitario, sanitario e di ordine pubblico, può presentare insidie sul piano della sicurezza».

Quelle insidie, completamente sottovalutate allora, emergono oggi con preoccupante sistematicità.

E colpiscono quei centri dove l'accoglienza è stata per anni una pratica frettolosa ed indolore, condotta in barba alle più elementari norme di prevenzione e sicurezza.

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