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New York, il boss ucciso come ai tempi di Al Capone

L'agguato a Frank Calì davanti alla sua casa di Staten Island. Un'esecuzione così non si vedeva da trent'anni

New York, il boss ucciso come ai tempi di Al Capone

Franky «Boy» Calì lo hanno freddato come ai vecchi tempi, con una scarica di colpi in mezzo alla strada, nella zona esclusiva di Todt Hill, a Staten Island, New York, perchè chi doveva capire capisca. Cercano un pickup blu fuggito dopo la sparatoria, facile che non lo trovino mai. Erano trent'anni che non si vedeva un'esecuzione così crudele e spettacolare.

Era il capo della famiglia Gambino, la cosca delle cosche, quelli che hanno fondato Cosa Nostra, quelli nati nella Mano nera, i killer di Joe Petrosino, Gambino Albert «Mad Hatter» Anastasia, Gambino era John Gotti, kings of New York ieri come oggi.

Cinquantatrè anni, imparentata con il clan mafioso degli Inzerillo, Calì era l'ambasciatore, il mediatore, il ponte fra Cosa nostra siciliana e la mafia americana. Adesso quel ponte l'hanno fatto saltare, per cosa presto lo sapremo.

Già undici anni fa, raccontano le cronache, l'inchiesta «Old Bridge», condotta tra Italia e Stati Uniti, aveva svelato che il commercio di frutta, ricco e fiorente, guidato Calì non fosse altro che il paravento di traffici illeciti. Era lui l'uomo chiave degli affari, era da lui che cercavano udienza mafiosi palermitani, come Nicola Mandalà e Gianni Nicchi. «Frank Calì è amico nostro» spiegava Nicchi al suo boss Nino Rotolo. E si sa cosa voglia dire essere amici e amici degli amici. «È il tutto di là» aggiungeva. E il tutto vuol dire che «Boy» contava come nessuno.

I rapporti con i Gambino e con Cosa nostra americana, si dicono convinti gli investigatori, non si sono mai interrotti sin dai tempi di «Iron Tower» e dell'operazione «Romano-Adamita», che avevano evidenziato i collegamenti tra i Gambino, gli Inzerillo, gli Spatola e i Mannino, perdenti in Sicilia, ma non negli Stati Uniti, dove comandavano sempre il traffico internazionale di stupefacenti. Proprio per questo i Lo Piccolo garantirono appoggi a Sarino Inzerillo per tornare a Palermo con un «mandato esplorativo», per riprendere i vecchi contatti. Contatti che i «torrettesi», dal loro punto di vista, non avevano mai perso: Calì si era offeso per essere stato escluso da alcuni lavori edili realizzati negli Usa da un nipote di Salvatore Badalamenti, molto vicino al boss di Torretta, paese in provincia di Palermo, Vincenzo Brusca. E il capomafia rassicurò Badalamenti: «Ci penso io, per 'u Franki, lo raccomando io, per altri lavori edili». Insomma i rapporti erano ripresi in grande stile. È tra la fine del 2003 e il 2004 che i boss giovani e rampanti, in rappresentanza di più famiglie e mandamenti, vanno negli States, per organizzare un nuovo e imponente traffico di stupefacenti, come le joint-venture di successo degli anni '80 e '90.

Sono storie di legami e diffidenze, di alleanze e sgarri. Come sui rapporti da tenere con Cosa nostra americana, dove le posizioni erano diverse, perchè, come spiegano gli esperti, Salvatore Lo Piccolo, il capocosca arrestato nel 2007, puntava a recuperare un rapporto costruttivo anche con i cosiddetti «scappati», cioè i mafiosi costretti all'esilio, all'inizio degli anni Ottanta, per evitare di essere massacrati durante le guerre di mafia.

Altri capimafia, Nino Rotolo su tutti, hanno osteggiato qualsiasi ipotesi di riconciliazione, per paura delle vendette dei decimati. «Ci scippano la testa» diceva, intercettato, il boss di Pagliarelli. Calì lo hanno fatto fuori come Albert Anastasia o Carmine Galante.

La Mafia uccide anche d'inverno.

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